Dakar 2016: Canon Rock

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Piero Batini
  • di Piero Batini
Sulle immagini non si transige: anche poche ma buone. La nostra dotazione è esemplare, e impostata su pochi, sani principi. Il gusto di spaziare nella grande qualità
  • Piero Batini
  • di Piero Batini
25 gennaio 2016

Basta telefonino! Basta selfie. Questo era il nostro imperativo di presupposto. Basta il pretesto di raccontare con lo scopo, invece, di raccontarsi e di mettersi al centro della scena. Per questo c’è l’album di famiglia, lo ricordiamo, che è un’altra cosa. Molto più “onesta”.

Il racconto della Dakar per immagini è foto d’azione e foto d’ambiente. Il nostro è più un viaggio nella storia globale che un’indagine di testa di classifica, e dunque è colorato a pastello, con le immagini delle atmosfere. Sono quelle che rendono l’idea, per intendersi. E poi, le azioni nelle interpretazioni dei mille fotografi lungo la pista si sprecano, mentre quelle che riportano il colore fuori dalle piste sono più rare, e per noi più preziose. Sono gallery umorali, a volte un po’ invadenti, ma “live”.

Per la “cattura” delle immagini abbiamo una vecchia storia, quasi sentimentale, con Canon. Apprezziamo il prodotto, e ci esaltiamo per il risultato, ogni volta che apriamo un file o che scorriamo impazienti nel contenuto della flash card mentre “scarichiamo”.

Abbiamo scelto due tipologie di attrezzature, anzi tre. Ovvero quattro. Lo stato dell’arte, Eos 1 Dx, e zoom di grande luminosità, privilegiando sempre l’accoppiata 16-35 e 70-210. Ma abbiamo sempre avuto al collo o a portata di mano una 5D, Mk3, o una 6D, in ogni caso full frame, spazio ai pixel. Ancora 16-35 e 24-70 da una parte e, dall’altra, l’intramontabile esempio di versatilità che è il 28-300. Un po’ pesante, ma ci puoi spaccare la roccia e lasciare a casa tre obiettivi, all’occorrenza.

Un obiettivo di “famiglia” che ha fatto furore, sempre a portata di mano e passato da un corpo macchina ad un altro senza sosta, persino all’estremo di gamma che vi racconteremo in altra occasione, è il 15mm “fish”, il modo migliore di essere direttamente nella scena.

Una questione “modernissima” è rimasta irrisolta. Obiettivi luminosi e “massicci”, oppure aperture meno importanti ma lenti più leggere. Agganciati a teorie abbastanza datate, almeno per quanto ci riguarda, c’è sempre una sorta di privilegio per i 2.8, capaci di “spaccare il capello in quattro” per definizione. Ma succede ormai d’abitudine, ormai, che l’accoppiata sensori del corpo macchina e stabilizzatore di immagini degli obiettivi abbiamo una tendenza al sopravvento. I motivi sono due. Da una parte quello terra-terra del peso, importante quando il bagaglio aereo è soggetto a un limite, dall’altra la stratosferica capacità di scendere in profondità verso le basse luci dei sensori Canon. Ecco che una focale .4 riesce oggi a conquistare valori di ISO impensabili anche solo poche stagioni fa, rendendo il mano libera un gioco da ragazzi, anche grazie alla stabilizzazione. Qualcuno sentenzierà che la “correzione” è pur sempre una caduta di qualità, parliamo del livello teorico tanto caro ai produttori di statiche di riferimento, ma l’indagine a campione e globale tra i file non ci ha aiutato ad emettere alcun verdetto di preferenza, e tutto sommato apprezziamo lo stile più moderno del concetto di ripresa.

Una cosa è importante da notare. Che sia uno o l’altro corpo macchina, dall’elite della 1 Dx, al “muletto” silenzioso 6D, nessun senso di differenziazione della produzione. È il bello del top!

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