Dakar 2014, Nani Roma: «Con la moto o con l’auto, vincere è sempre bellissimo!»

Dakar 2014, Nani Roma: «Con la moto o con l’auto, vincere è sempre bellissimo!»
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Piero Batini
  • di Piero Batini
Nel 2004 vince con la Moto. Nel 2014 con la Mini. La storia di Joan Roma è quella di un autentico fuoriclasse… fuori dalle righe. Sincero e spontaneo, allegro e pungente. Non si è Campioni per caso | <i>P. Batini</i>
  • Piero Batini
  • di Piero Batini
24 gennaio 2014

Valparaiso, 18 Gennaio - Ricordate quando nella terza tappa, e poi nella quinta, ci entusiasmavamo per il successo di Joan Roma, e ci scaldavamo perché nessuno sembrava riconoscere al catalano le sue grandi, ormai evidenti doti? Non facevamo il tifo e neanche pensavamo di aver già visto nel futuro di questa Dakar, ma era chiaro che Roma aveva fatto un salto in avanti e lottava ad armi pare per la posta più alta dell’avventura agonistica più importante, la Dakar.

 

Il 18 gennaio ci ha dato ragione. Joan “Nani” Roma vince la sua prima Dakar in Auto, bissa il successo ottenuto in Moto nel 2004 e diventa il primo Pilota spagnolo a vincere in entrambe le categorie. Il ruolino di marcia di un Campione della Dakar è abbastanza classico. Inizio in sordina, un colpo “brutale” a un terzo di gara, e mantenimento della posizione fino alla fine. Ma più che un “classico”, la vittoria di Roma è una pagina memorabile della migliore antologia catalana della storia della Dakar. Il quinto giorno la Dakar 2014 ha vissuto uno dei suoi momenti chiave, con unna tappa micidiale.

 

Quel giorno, contemporaneamente, Marc Coma e Joan Roma vincevano e passavano al comando, e il 18 gennaio la lingua ufficiale della Dakar diventava il catalano. Coma di Avià, “Nani” di Fogueroles, dove è nato il 17 febbraio del 1972. I due barcellonesi abitano a cinquanta chilometri di distanza, e sono cresciuti alla stessa scuola, quella che oggi è l’"università" della Dakar. In 18 anni di Dakar, Nani ha completato una doppia, magnifica metamorfosi. 

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Joan Roma vince la Dakar 2014 al volante della Mini All4 Racing

Le tante Dakar di Roma

Nel 1996 partecipava alla sua prima Dakar. Dopo due giorni era in testa, e poco dopo il 24enne Pilota, piuttosto “irruente”, si fiondava in un oued in secca. Finiva lì, per quell’anno. Nel 2004 la sua KTM, lanciata verso una vittoria ormai sicura, si fermava nel deserto egiziano di Dakhla. Poco male. Quattro anni dopo Nani, primo spagnolo, firmava un libro che si intitolava “Così si vince la Dakar”. Fu una vittoria meravigliosa. Da capo, l’anno dopo Nani passava alle auto (ha sempre considerato che la Dakar in moto è un affare pericoloso) e otteneva il sesto posto con la Mitsubishi ufficiale. E via così…

 

Come sono cambiate le tue giornate dopo la vittoria?

«Adesso mi sento proprio come una trottola. Salto da un incontro a una conferenza, da una cena con gli sponsor a un pranzo con i giornalisti, da Barcellona a Madrid, e poi via di nuovo. È un po’ un “giro”, ma è bello. Succede anche questo, sono stanco, adesso, più di quanto lo fossi durante la gara. Adesso ho tanti “amici”, nascono come funghi. Fa tutto parte del gioco, lo so, e alla fine sono contento anche di questo».

È stata una Dakar talmente dura e difficile che quello che provo oggi è ancora più forte. È stata durissima. Sulla pista e dopo la pista. Tensione altissima per tutta la gara, e gli ultimi giorni ancora di più

 

Come giudichi questa edizione della Dakar?

«È stata una Dakar talmente dura e difficile che quello che provo oggi è ancora più forte. È stata durissima. Sulla pista e dopo la pista. Tensione altissima per tutta la gara, e gli ultimi giorni ancora di più. Abbiamo imparato ancora molto, e questo è un bene per il futuro. Sensazioni che non avevo mai provato così intensamente. Un po’ differenti da quelle che provavo quando andavo in moto. L’ambiente delle auto è più complesso più difficile da gestire. È un mondo diverso».

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Nani Roma in compagnia della moglie Rosa Romero, anche lei pilota

 

La Dakar più dura da quando si corre in Sud America?
«Ah sì, questo è sicuro. È stata molto lunga e difficile. Non solo nelle speciali, anche durante i trasferimenti. Si partiva alle cinque e mezza e si arrivava alle sei della sera. Era lunga, sì. E poi le neutralizzazioni in mezzo alle Speciali. Quelle non mi piacciono. Certo, li capisco, hanno forse avuto dei problemi, ambientalisti, archeologhi, anche là, e sono stati costretti a interrompere più di una speciale. Ma per noi è un disastro, non mi piace. Preferisco fare 600 chilometri di Prova tutti d’un fiato piuttosto che farne duecento, interrompere, e ricominciare tutto un’altra volta duecento KM più in là. Prendi il ritmo, poi ti fermi e lo perdi, e poi devi ricominciare, ritrovare la concentrazione, e poi di nuovo il ritmo. Ma è così, pace. Tutto bene. Tutto benissimo».

La gente la sento molto, sento che è contenta quando vinco, e che mi è vicina sempre, anche quando le cose non vanno per il meglio. La gente di ASO è diversa

 

C’è da dire che l’anno scorso sei sempre andato forte, e quindi dovevi sentire che eri su un livello più alto...
«Sì, effettivamente avevo un gran feeling. Dipendeva da tutto il lavoro che abbiamo fatto l’anno scorso. Quattro gare, quattro vittorie. Dubai, Ruta 40, Baja Spagnola e Baja ungherese. Sempre in testa dal primo giorno. in questo modo fai sempre un grande lavoro, importante anche per la testa. Perché, sai, puoi vincere, ma stare davanti tutto il tempo è una cosa che ti insegna molto. È vero, in una soltanto di queste occasioni c’era anche Stephane, nelle altre non c’era nessuno di imbattibile. Non c’erano Peterhansel, Al-Attiyah, De Villiers, ma sì, Holowzcyc e altri che vanno abbastanza forte, ma che hanno finito tre ore dopo di noi».

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Nonostante una Dakar durissima, Roma è riuscito ad essere costante, arrivando al trionfo con abile strategia

 

Devi pensare, però che questo vuol dire andare già molto forte. Non è come otto o nove anni fa, quando eri lì per imparare…
«Questo è vero, ed è importante. È vero che durante l’anno abbiamo fatto un upgrade decisivo. Il mio “boss” pensava forse che io fossi sui livelli di “Holo” e degli altri, ma non era così. Loro facevano tutte le gare mentre io ne ho fatte poche, pensando alla Dakar. Pensando di arrivare alla Dakar in una condizione perfetta, con il feeling giusto. Sì, alle spalle di questa vittoria c’è un grande lavoro, e non solo mio».

 

Certo la vita del Dakariano è dura. Nove anni di lavoro per vincere con la moto, e nove per vincere con l’auto…
«No, ferma. Dieci anni! Con la macchina sono nove edizioni prima di vincere, ma dieci anni! Abbiamo vinto, finalmente al decimo anno. Ma sai, le storie e la vita sono strane, non sai come prenderle. Penso, per esempio, che la Dakar con le moto l’avevo già vinta nel 2000. Ti ricordi? Fermo nel deserto egiziano con il motore rotto, a un passo dal traguardo e dalla vittoria. E con la macchina, anche. C’è stata la storia del 2011, con la crisi che bussava alle porte e gli sponsor che non si trovavano. Mitsubishi si era fermata, Volkswagen anche. Stavo per saltare la Dakar, stavo per fermarmi anche io, e devo ringraziare Dio che poi è arrivata l’opzione di quella Nissan. Quando poi ti succede tutto questo, ch sei a un passo da smettere, che tieni duro, che riparti, che vinci, ecco, allora sei ancora più contento!»

Penso, per esempio, che la Dakar con le moto l’avevo già vinta nel 2000. Ti ricordi? Fermo nel deserto egiziano con il motore rotto, a un passo dal traguardo e dalla vittoria. E con la macchina, anche

 

Sì, strana la vita eh?
«Sì, tutta la mia vita è stata strana. Anche quando ho iniziato con l’Enduro è stato così. Nel ’93 sono stato sul punto di smettere, perché non avevo sponsor, non avevo risorse. Non ci volevo stare, sono sempre stato troppo appassionato, non ho mai mollato, e sono riuscito a vincere il Campionato Europeo. Poi, come per magia, tutto è diventato più facile. Bisogna seguire sempre la passione, trovarvi la motivazione, non mollare, e voilà!»

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La Dakar di Roma svolta alla quinta tappa, quando il pilota spagnolo porta a casa una vittoria dopo una speciale micidiale

 

Le gente di ASO e gli organizzatori della Dakar non ha mai dimostrato una grande simpatia per te, o sbaglio?
«La gente la sento molto, sento che è contenta quando vinco, e che mi è vicina sempre, anche quando le cose non vanno per il meglio. Effettivamente la gente di ASO è diversa. Ma un giorno l’ho detto ai giornalisti, a tutti insieme venuti lì ad ascoltarmi! Ho detto a tutti che avevo la “sensazione” che ogni volta che facevo un errore, ah, ecco, Nani è uno che sbaglia sempre! E quando sbagliavano gli altri, tipo Peterhansel, o Sainz, allora era la sfortuna! Facevo una tappa bellissima, con una buona strategia, e allora ero fortunato. E quando vincevano “loro” era perché erano degli strateghi perfetti! Questo mi faceva imbestialire!»

Quando sbagliavano gli altri, tipo Peterhansel, o Sainz, allora era la sfortuna! Facevo una tappa bellissima, con una buona strategia, e allora ero fortunato. E quando vincevano “loro” era perché erano degli strateghi perfetti! Questo mi faceva imbestialire

 

Ma, infatti, la verità è che hai fatto una gara perfetta. Non hai commesso errori, hai bucato, hai superato la tappa micidiale che è costata mezza Dakar a tutti in modo impeccabile. Anche questa l’hanno considerata fortuna?
«Il fatto è che io mi sento un po’ diverso. Mi succedeva anche quando correvo con la moto. La verità è che anche noi abbiamo commesso qualche errore, e abbiamo anche perso diversi minuti forando o insabbiandoci. Ma ho evitato di sbandierarlo, ho preferito non dirlo per evitare che i soliti “curiosi” venissero a dirci che avevamo la scusa pronta. La stessa sensazione di quando correvo in moto, per esempio contro Richard Sainct. La conclusione è una sola. La Dakar è una gara francese, la gente che fa la loro comunicazione dalla pista è francese. Succede che questa gente passa informazioni di stampo francese al bivacco, e molta della gente che è lì si beve delle informazioni che sono del tutto filo francesi. Bisogna ammetterlo, è una gara francese. L’altro giorno, a tutti i giornalisti presenti, ho ribadito il concetto. C’era il mio manager, il nostro amico, che stava per avere un attacco cardiaco! Mi dispiace ma, come nel 2004, questa volta ho vinto io! Poi mi ha avvicinato l’Equipe per un’intervista a Parigi. No! Non ho neanche risposto! Non mi andava di sentirmi chiedere se ho vinto la Dakar perché sono fortunato!»

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Nani Roma in compagnia del suo navigatore, Michel Perin

 

E allora, vogliamo dirla la verità più serena?
«La verità nuda e cruda è che ho vinto due Speciali in due momenti chiave della gara, sono andato in testa, sono sceso, ho riconquistato il comando, e sono stato in testa per otto tappe. Più l’ultima! Il terzo è a un’ora, il quarto e il quinto a un’ora e mezza… allora qualcosa di buono l’ho fatto.

 

E poi chi vince la Dakar è il più bravo. Senza possibilità di dubbio. Dopo quindici giorni non si può prendere una speciale o il passaggio di una duna come riferimento. Non è come l’enduro di un giorno che cadi e vai via…
«E Marc, allora? Ha vinto perché Cyril ha rotto, perché Barreda è caduto? O perché l’altro ha finito la benzina? No, No! Coma ha vinto perché ha fatto una bellissima gara. La Dakar è una gara difficilissima, lunghissima… Ma, insomma, finiamola. Sono in istintivo, e mi accendo spontaneamente quando la gente dice una cosa e ne pensa un’altra. Ma poi mi passa, quello che resta è che sono contentissimo».

E Marc, allora? Ha vinto perché Cyril ha rotto, perché Barreda è caduto? O perché l’altro ha finito la benzina? No, No! Coma ha vinto perché ha fatto una bellissima gara

 

La tappa più bella?
«Bello il giorno che siamo andati in testa la prima volta, ma bella, molto bella io direi che è stata tutta la Dakar. È stata bella in Argentina, è stata bella tra le dune di Copiapò, la Speciale di San Miguel de Tucuman. È stata una Dakar, difficile, difficile, ma bella, molto bella».

 

I tuoi rapporti con Stephane Peterhansel?
«Erano buoni e sono rimasti molto buoni. Alla fine della gara abbiamo parlato a lungo. Non è cambiato niente. La stessa amicizia. Lo conosco bene, Stephane, è una persona molto intelligente e uno cui piace giocare tutto per vincere. Questa volta credo che le abbia provate tutte per cercare di destabilizzarmi, di farmi fare un errore. Mi sono accorto di questo, e ho cercato di fare esattamente il contrario di quello che lui voleva spingermi a fare. Vuoi che vada a destra? Bene, io vado a sinistra. Stephane è uno bravo. E gestire anche questa parte della strategia è stato difficile, impegnativo. Quando ha parlato con la stampa della storia degli ordini penso che lo abbia fatto per questo, per scombussolarmi sapendo che la stampa mi avrebbe aggredito. È quello che cercava, un bel pandemonio appoggiato sulla stampa francese. Ci ha provato, ma io sono stato capace di vedere il gioco, e di fare il contrario rimanendo calmo. Questo è buono».

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Il podio di Valparaiso, il 28 gennaio scorso

 

Non credi che l’abbia fatto per svilire Quandt?
«No, penso di no. Penso che l’abbia fatto solo per mettermi pressione. Peterhansel è un vincente, il secondo posto per lui non era niente. Penso che l’abbia fatto per farmi fare un errore. Ma alla fine non è successo».

 

E l’ultimo giorno?
«L’ultimo giorno avevo tutte le condizioni a favore per vincere. Partivo terzo, e con la macchina avere le tracce davanti è un vantaggio bestiale. Freni più deciso, prendi le curve in modo più pulito, scegli le traiettorie ideali. E poi ero pronto. La sera prima l’ho detto: bene, andiamo alla guerra! Non c’è problema. L’ho detto agli ingegneri e ai meccanici: domani tutto al massimo. Via tutti i ricambi dalla macchina, solo il carburante strettamente necessario, massima leggerezza. Tutto per andare alla guerra, e al massimo. Se sbaglio e faccio un incidente, pace, Stephane vince, sennò vinco io. Poi loro si sono fermati. Finita lì. Se c’è una cosa da dire è che forse Peterhansel non ha mai avuto una situazione così difficile».

È diverso perché in moto sei da solo e in macchina condividi l’esperienza con un’altra persona, con il navigatore, Michel Perin. Ma vincere è sempre vincere!

 

E ahora?
«Ahora stiamo ancora un po’ in giro, così come in questi giorni. A febbraio molta promozione. Mini presenta a Madrid una macchina nuova, vado in America per uno show Monster e Mini».

 

E Rosa? Come è andata la Dakar di tua moglie?
«Rosa è contenta. Non è riuscita a concludere la sua Dakar, ma il risultato in famiglia lo abbiamo ottenuto. Dopo il suo ritiro mi ha seguito con una macchina, ed è stata contenta».

 

È più bello vincere con la macchina o con la moto?
«Ah, è uguale. Quando vinci, vinci!  È diverso perché in moto sei da solo e in macchina condividi l’esperienza con un’altra persona, con il navigatore, Michel Perin. Ma vincere è sempre vincere!»

 

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