F1. Gran Premio d'Australia: i ricordi di viaggio di tanti anni fa con un ospite particolare nel paddock

F1. Gran Premio d'Australia: i ricordi di viaggio di tanti anni fa  con un ospite particolare nel paddock
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Paolo Ciccarone
La Formula 1 è tornata a Melbourne per il terzo appuntamento stagionale. Ecco i ricordi di viaggio del Gran Premio d'Australia di qualche anno fa
22 marzo 2024

Melbourne, un nome che riporta alla mente i periodi dell’impero britannico e delle scoperte a ripetizione in un periodo storico in cui ancora oggi si trovano le tracce. Come Melbourne, la città, anzi l’area, raccoglie una decina di comuni per un totale che supera i 5 milioni di abitanti. Ma quando si tratta di F.1 tutto ruota attorno al parco vicino la zona di Santa Kilda e il centro storico (si fa per dire…) e lo Yarra River coi suoi avvenimenti, concerti ed esposizioni. L’ultima volta fu nel 2007 con una città che dal 1996, prima edizione del GP dopo Adelaide, era già profondamente cambiata, con autostrada che dall’aeroporto portava in città, con una serie di quartieri e strade che in meno di 10 anni avevano già trasformato tutto. Una evoluzione continua dove i ricordi si accavallano. E si torna a quel 1996, prima edizione. Era ancora inverno in Europa, ma quel 10 marzo da quelle parti era estate torrida. Era appena il 12 novembre quando avevamo lasciato Adelaide che dopo poco si dovette tornare in Australia. La tirata era bella pesante, sia per le tante ore di volo, sia per il clima: freddo da noi, caldo estate da loro. E le 10 ore di fuso (ad Adelaide anche la mezz’ora a dire il vero) a complicare le cose.

Si arriva a Melbourne alla scoperta di un nuovo mondo: tutta altra cosa rispetto ad Adelaide, che sembrava provincia disastrata al confronto con quello che offriva Melbourne, anche se ad Adelaide i rapporti umani erano più stretti, c’era più complicità, a Melbourne era grande città con tutto quello che ne segue. Trovato l’Albert Park, col suo lago centrale, i viali odorosi di eucalipto, con gli alberi curati e le transenne a limitare gli accessi dai quattro lati, con la linea del tram da un lato e lo stradone a tre corsie dall’altro. I box prefabbricati e l’odore di agnello grigliato: c’era una crisi internazionale e l’esportazione di montoni e agnelli verso i paesi arabi si era arrestata di colpo e l’eccesso di produzione aveva obbligato, o quasi, i rivenditori locali a offrire solo questo tipo di carne. Mischiata con cipolle e spezie varie. Inutile dire che l’aria era impregnata e quindi, dopo un po’, cominciava a stufare. In un box di un team (che non nominiamo) veniamo incuriositi da un personaggio che in un angolo, con un pesante vestito di flanella a quadrettoni, cravatta stretta e abbondante sudorazione, stava in piedi a osservare le operazioni su un pilota.

Dopo il primo giorno lo ritroviamo ancora lì il secondo. Cambiava solo la cravatta, ma vestito e camicia sempre la stessa. Chi è? La domanda era spontanea: “No niente, è l’ingegnere” era la risposta vaga. La sera, come di consueto, si andava a mangiare in Lygon Street, ovvero nel cuore della Little Italy di Melbourne. Ristoranti, bar, negozi di abbigliamento, mercerie e panetterie. Sembrava davvero un pezzo d’Italia e i locali facevano a gara ad ospitarci, perché avere gente dall’Italia che lavorava in F.1, piloti e team compresi, era un motivo di orgoglio. Infatti, moltissimi erano arrivati negli anni 50 e 60, sulle navi e dopo tre mesi di navigazione. La voglia di tornare in Italia scompariva dopo aver toccato terra e al pensiero di un lungo viaggio di ritorno. Per molti era uno choc perché voleva dire capire immediatamente che non ci sarebbe stato alcun ritorno. E le umiliazioni patite, l’essere italiano in un paese anglofono, le privazioni e i sacrifici per mandare dei soldi alle famiglie rimaste in patria, erano un boccone amaro ancora da digerire. E arrivare in F.1 con la Ferrari, i piloti italiani con gli altri team, era motivo di orgoglio. Era quel biglietto da visita di alto livello cui gli australiani rendevano omaggio. E avere ospiti a cena qualcuno di quel mondo era il miglior modo per “vendicarsi” di anni di dileggi e umiliazioni.

L’ingegnere, suo malgrado, faceva parte di quella voglia di riscatto. Ma qualcosa non funzionava a dovere. Infatti una sua domanda (aveva il dono della parola, ma stava sempre zitto anche quando lo salutava qualcuno) lasciò senza fiato: “Miii, gli alberi con le luci, ma come li hanno piantati?” fu la sua osservazione. “E’ una specialità australiana – gli risposero – piantano i semi da piccoli, con una piccola batteria e quando crescono gli alberi producono corrente e le luci si accendono di sera” disse un accompagnatore manager di piloti. “Bello, se trovo i semi li porto in collegio” e la conversazione finì lì. Con il sudore che colava dal colletto ormai andato della camicia e del vestito di flanella a quadrettoni. Tre giorni così, mai una parola di troppo, mai una risposta a un saluto. Fino a domenica pomeriggio. Parte la gara, incidente con Brundle che vola e sospensione. Si va sullo schieramento. Bandiera rossa. Le immagini TV mostrano le auto spinte dai meccanici, quando vediamo Bernie Ecclestone con il nostro ingegnere che gli dà una pacca sulla spalla e spinge una monoposto. “Ma porca putt” urla il team manager. “O caz, che ci fa lì?” replica il manager.

Intanto squillano i telefonini, si vede l’ingegnere in TV che prende il suo e risponde, guardando in giro verso le telecamere. “Oh Dio oh Dio e mo che facciamo?” si sente nel box. Panico allo stato puro. A questo punto chiediamo spiegazioni. E scopriamo che l’ingegnere non lo era. Lo avevano chiamato così per depistare la curiosità, per non far sapere che era una promessa fatta tanti anni prima al pilota e al suo entourage. E si scopre che aveva un permesso premio da Regina Coeli. Per cui non poteva essere in Australia. Non doveva essere lì in mondo visione a salutare gli amici del quarto braccio entusiasti dalla visione del loro amico lì, al centro della cronaca dall’altra parte del mondo. La cosa non sappiamo come è andata a finire. La promessa è stata mantenuta e la sera, in Lygon Street, a precisa domanda: che fine ha fatto l’ingegnere? “E’ tornato a casa, lo stanno aspettando in aeroporto”. Era arrabbiato? “No, era felice perché ha mantenuto una promessa fatta tanti anni fa e non gli importava delle conseguenze”. Come abbia fatto ad avere un visto di ingresso, a far parte per quei pochi minuti al centro dell’attenzione mondiale, non lo sapremo mai. Ricordiamo però la figura dell’ingegnere, obbligato a vestirsi giacca e cravatta con l’unico vestito posseduto per non fare brutta figura, sopportare il caldo e mantenere fede a un impegno. Costi quel che costi.

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