Controlli, multe e Whatsapp: cosa fare?

Controlli, multe e Whatsapp: cosa fare?
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Alfonso Rago
  • di Alfonso Rago
Messaggi via smartphone all’epoca del Covid-19; tra i più virali, quello che suggerisce come evitare ammende e conseguenze penali. E’ il caso di fare chiarezza
  • Alfonso Rago
  • di Alfonso Rago
16 marzo 2020

Probabilmente l’abbiamo ricevuto tutti, il messaggio che rimbalza sulle chat di Whatsapp, mai così roventi come in questi giorni, attribuito ad una sedicente avvocatessa bresciana, prodiga di consigli su come comportarsi nel caso si venisse fermati per un controllo da parte delle Forze di Polizia e ritenuti in difetto rispetto a quanto previsto dal Decreto governativo #iostoacasa.

In soldoni, le procedure giuste per “restare incensurati”, senza macchiare la propria fedina penale. 

Il decreto, lo ripetiamo per l’ennesima volta, emesso per evitare il contagio, prevede sia possibile uscire di casa solo per motivi di lavoro, salute o necessità.

La violazione di un provvedimento dell’autorità (nello specifico, il dpcm del 9 marzo) costituisce reato”, così come descritto dall’articolo 650 del Codice Penale e come ripetuto anche nel vocale di WA: quello però che manca negli oltre dieci minuti del messaggio è la menzione di un passaggio intermedio, ma cruciale, tra controllo in strada ed erogazione della sanzione.

Infatti, se si venisse fermati e le giustificazioni non fossero valutate come  sufficienti, l’eventuale sanzione penale, ovvero l’ammenda, può essere irrogata solo ed esclusivamente da un’autorità giudiziaria e non seduta stante dall’agente, o militare, che effettua il controllo.

Se le forze dell’ordine, dopo aver valutato le dichiarazioni del cittadino fermato, ritenessero che la sua presenza in strada rappresenti una violazione del decreto Conte, devono procedere a stilare a suo carico un “Verbale di identificazione di persona nei cui confronti si svolgono indagini preliminari” e provvedere a trasmetterne comunicazione della notizia di reato alla competente Procura della Repubblica.

Si apre così una proceduta di indagine sul reato contestato, con fascicolo affidato ad un pubblico ministero.

A questo punto, le opzioni in mano alla Procura sarebbero di procedere all’archiviazione, non ravvisandosi nel comportamento denunciato l’attuazione di un reato; oppure, qualora l’ufficio inquirente propenda al contrario per l’ipotesi di reato, ci sarà la richiesta di sottoporre l’indagato a processo; se il Tribunale condividerà tale tesi, si riceverà un decreto di citazione a giudizio.

Tuttavia, per chi è incensurato - come con tutta probabilità accade alla maggioranza dei cittadini oggetto di denuncia in questi giorni - il PM potrebbe scegliere una strada più rapida per chiudere il procedimento, chiedendo al Gip di emettere un decreto penale di condanna, provvedimento con cui il reato viene sanzionato “a domicilio” tramite il pagamento di una somma (importo previsto dal Codice fino a 206 euro), chiudendo le indagini e saltando il passaggio processuale; è ciò che accade ricevendo la “busta verde”, citata nel messaggio.

Se non si ha nulla da obiettare, versando quanto chiesto la questione si chiude, ma attenzione: il reato resta menzionato sul casellario giudiziale personale, con tutte le conseguenze negative del caso. 

Scegliendo di non versare e rivolgendosi ad un avvocato, si aprono altee strade: si può fare opposizione, entro quindici giorni dalla notifica, preparandosi a difendere le proprie ragioni in una pubblica udienza, dove toccherà al giudice decidere per l’assoluzione o la condanna (in questo caso, ricordiamo che il reato dell’articolo 650 del Codice Penale prevede non solo un’ammenda, ma anche la reclusione fino a tre mesi).

C’è poi un’altra possibilità, riportata dal vocale: impugnando il decreto penale, sempre nel termine di quindici giorni dalla sua ricezione, si può proporre l’oblazione, accettando di pagare una somma prestabilita e ottenere la depenalizzazione della contestazione, che si trasforma in una più semplice sanzione amministrativa, senza conseguenze sul casellario giudiziale.

Ma tale possibilità non è però obbligatoria da parte del giudice, che potrebbe anche non concederla qualora valutasse il fatto molto grave.

Cosa dice la Camera Penale di Brescia

La vicenda del messaggio di Whatsapp ha scatenato diverse reazioni, tra cui quella della Camera Penale di Brescia (foro della sedicente legale autrice del messaggio), che in comunicato ufficiale ne ha “fermamente stigmatizzato il contenuto”. Lo riportiamo integralmente qui di seguito

“…Sono giunte alla nostra attenzione numerose segnalazioni riguardanti un messaggio vocale, che una nostra iscritta avrebbe registrato e diffuso, con il quale vengono illustrati profili giuridici, iter processuali e rimedi difensivi connessi alla violazione dell’art 650 c.p.. Il suindicato vocale ha ormai raggiunto moltissime persone, ottenendo una diffusione su scala nazionale. Riteniamo che il contenuto di quel messaggio vada fermamente stigmatizzato. In un momento difficile come quello che tutti stiamo affrontando l’avvocato deve avere chiara la sua funzione sociale. Non è tollerabile propagare messaggi che possano ingenerare confusione tra la popolazione, già estremamente provata in questo momento di grande sacrificio sociale e che possono concretizzare una violazione dei principi deontologici che ispirano la nostra professione. Auspicando che la nostra collega possa fornire i dovuti chiarimenti agli organi innanzi ai quali sarà eventualmente chiamata a rispondere, unici autorizzati ad emettere un giudizio, riteniamo opportuno inviare la presente al Collegio dei Probiviri della Camera Penale della Lombardia Orientale per le valutazioni di competenza“.
Il direttivo della Camera Penale di Brescia
 

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