Origini e affermazione dei freni a disco

Origini e affermazione dei freni a disco
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Massimo Clarke
  • di Massimo Clarke
Dalle prime proposte e dai primi brevetti alla affermazione definitiva, ottenuta grazie ai grandi successi agonistici. Ecco la lunga ed interessante storia dei freni a disco | <i>M. Clarke</i>
  • Massimo Clarke
  • di Massimo Clarke
22 maggio 2015

Come accaduto per tanti altri dispositivi e per tante altre soluzioni tecniche, anche nel caso dei freni a disco l’idea base risale agli albori del motorismo. E, anche in questo caso, per arrivare a metterla in pratica in maniera razionale e vantaggiosa, di acqua sotto i ponti ne è dovuta passare non poca… 

 

Il primo brevetto relativo a un freno a disco destinato ad equipaggiare un’automobile, per quanto è dato sapere risale al lontano 1902. Il merito va a F. W. Lanchester, un tecnico inglese davvero vulcanico, che per diverso tempo ha anche costruito vetture di pregevole fattura. La sua prima proposta prevedeva un sottile disco che veniva stretto per mezzo di una semplicissima pinza meccanica tra due piccole pastiglie. In seguito Lanchester ha realizzato anche un tipo che lavorava in bagno d’olio. 

I primi esempi

Nel corso degli anni Dieci e Venti del secolo scorso si sono susseguite proposte differenti, negli USA, in Germania e in Inghilterra; in certi casi (come quello dell’americana Tru-stop), il freno agiva sull’albero di trasmissione; altre riguardavano soluzioni multidisco, con una struttura che ricordava quella delle frizioni motociclistiche. Quest’ultimo schema ha successivamente trovato applicazioni in campo aeronautico per merito di costruttori come Dunlop, Lockheed, Goodyear (la “Airwheel”) e Argus Motoren. 

1 disco rovente
L’affermazione dei dischi ha rivoluzionato il mondo dei freni, consentendo l’ottenimento di prestazioni impensabili in precedenza

 

Un interessante brevetto, rilasciato nel 1933 alla English Electric Co., prevedeva un freno con disco autoventilante con pinza meccanica; era stato studiato per impiego industriale ma aveva un disegno assai simile a quello dei freni che successivamente si sarebbero affermati sulle auto. Va ricordato anche, nello stesso periodo, il brevetto relativo a un freno a dischi multipli per impiego aeronautico rilasciato all’americano Weldon. Nel corso della seconda guerra mondiale freni a disco realizzati con vari schemi sono stati impiegati anche su alcuni carri armati e su alcuni veicoli blindati. 

 

Nel 1940 alla famosa 500 miglia di Indianapolis hanno preso parte due vetture dotate di freni a disco, una Lencki-Special e una Miller a quattro ruote motrici. L’adozione della nuova soluzione tecnica non ha destato particolare interesse, perché sul velocissimo ovale non si fanno certo grandi staccate e, diversamente da quanto accade sui circuiti europei, i freni non sono determinanti. 

La 24 Ore di Le Mans ha visto la definitiva consacrazione dei freni a disco nel 1954, anno nel quale hanno equipaggiato le esordienti Jaguar D, vincitrici della 24 ore nel 1955, 56 e 57

A Le Mans la consacrazione

Una volta terminate le ostilità, le preziose e positive esperienze effettuate nel settore aeronautico hanno portato rapidamente diversi tecnici a focalizzare le loro attenzioni sulle possibilità di impiego di freni di questo tipo in campo automobilistico. Da un suo brevetto del 1946 la Dunlop ha così sviluppato nel giro di pochi anni un freno con unico disco sul quale agivano tre coppie di pastiglie, disposte a 120° e spinte da sei pistoni idraulici, destinato ad essere montato su vetture di alte prestazioni. Nel 1949 negli USA la Crosley ha montato su una piccola serie della sua Hot Shot dischi autoventilanti realizzati in collaborazione con la Goodyear. 

2 Jaguar D
A portare alla ribalta i freni a disco è stata la Jaguar, che ha dimostrato la loro superiorità in maniera inequivocabile. La sua “type D”, che utilizzava i Dunlop, ha vinto a Le Mans nel 1955, 56 e 57

 

Un discreto successo hanno avuto i freni con due dischi completamente racchiusi all’interno di un grosso tamburo fittamente alettato che sono apparsi nello stesso periodo sulla Chrysler Crown Imperial e che hanno continuato ad essere impiegati fino al 1954. I dischi erano fissi ma potevano scorrere assialmente; a premerli contro le superfici laterali del tamburo rotante provvedevano alcuni cilindri idraulici. Le prime prove di freni di questo tipo erano state effettuate addirittura nel 1939 su una vettura Plymouth. 

 

Lo sviluppo effettuato dalla Dunlop partendo dai suoi freni per impiego aeronautico è sfociato in una serie di prove in gara che si sono svolte a partire dal 1952 su vetture Jaguar; una di esse ha preso parte alla Mille Miglia e un’altra si è imposta a Le Mans nel 1953. Anteriormente venivano impiegate pinze con sei pistoni opposti. Proprio la durissima competizione francese ha visto la definitiva consacrazione dei freni a disco nel 1954, anno nel quale hanno equipaggiato le esordienti Jaguar D, vincitrici della 24 ore nel 1955, 56 e 57. 

3 Dunlop MG A
Vista esplosa di una pinza Dunlop della seconda metà anni Cinquanta. È costituita da una parte centrale alla quale vengono fissati mediante viti due cilindri idraulici amovibili

Il disco arriva sulle auto di serie

Oramai la strada era stata indicata e i freni di questo nuovo tipo hanno cominciato ben presto ad essere impiegati anche su alcune auto di serie, non solo sportive a due posti (Austin Healey, Triumph, Jensen) ma anche berline destinate ad essere prodotte in grandi numeri (Citroen DS 19). Per quanto riguarda i fabbricanti dei dischi e delle pinze, a Dunlop e Girling si sono successivamente aggiunti marchi come Lockheed, DBA, e ATE. Nella prima metà degli anni Sessanta la maggior parte dei costruttori europei è passata gradualmente ai freni a disco anteriori per quasi tutti i modelli, mantenendo però ancora i molti casi i tamburi posteriormente. Solo sulle auto di impostazione più utilitaria e di prestazioni più modeste i tamburi hanno continuato ad essere impiegati ancora per qualche tempo su tutte e quattro le ruote. 

4 Girling TR 3
Per qualche tempo la Girling ha prodotto pinze monoblocco con due pistoni opposti, i cui alloggiamenti erano ottenuti per foratura. Nella immagine si nota chiaramente il grosso tappo filettato che chiude l’estremità del foro

I vantaggi del disco

Mentre nei freni a tamburo delle due ganasce usualmente vincolate al piatto portaceppi almeno una è autofrenante, nei freni a disco questa sorta di autentica “servoassistenza incorporata” non c’è e nel circuito idraulico di comando deve esserci una pressione notevolmente più elevata.

 

Per questa ragione sin dai primi esempi di impiego dei freni a disco è stato adottato un dispositivo in grado di aumentare considerevolmente la forza esercitata dal pilota sul pedale.

 

Di servofreni ne erano stati ideati e realizzati di vario tipo anche in precedenza; ad affermarsi, per la loro semplicità e per la loro ottima efficienza, sono stati quelli pneumomeccanici, che funzionavano sfruttando la depressione esistente nel collettore di aspirazione durante la fase di rilascio (cioè con il motore trascinato, a farfalla chiusa). 

 

Questi dispositivi sono costituiti in pratica da capsule pneumatiche di rilevante diametro nelle quali il vano interno è diviso in due parti da un apposito diaframma; una viene al momento opportuno messa in collegamento con l’atmosfera, mentre l’altro è collegato al collettore di aspirazione. In fase di rilascio la pressione atmosferica spinge sul diaframma con una forza che va a sommarsi a quella che dal pedale viene trasmessa alla pompa del circuito idraulico di comando del sistema frenante. 

5 ATE 2 pist opposti
Questa pinza ATE fissa a due pistoni opposti è realizzata in due parti, che vengono unite mediante viti. Si tratta di una soluzione razionale e ampiamente standardizzata

  
Rispetto ai quelli a tamburo, i freni a disco presentavano vari vantaggi, tra i quali spiccava un più agevole raffreddamento. Nonostante questo, per le applicazioni più gravose (veicoli da competizione o di prestazioni molto elevate) ben presto è apparso evidente che occorreva migliorare la situazione.

 

Il disco lavorava allo scoperto, ma veniva ad essere abbondantemente “schermato” in quanto alloggiato all’interno della campanatura della ruota.

 

Per aumentare la superficie di scambio termico (fermo restando il diametro) e per attivare una vigoroso flusso di aria sfruttando la forza centrifuga sono stati così realizzati i dischi autoventilanti, dotati di una serie di passaggi radiali ottenuti per foratura o direttamente di fusione. 

6 P flottante auto
Le pinze flottanti, come quella monopistone qui mostrata, hanno ottenuto una grande diffusione sulle auto di serie perché sono semplici, costano poco e hanno un ingombro ridotto

 

Per quanto riguarda le pinze, inizialmente sono state impiegate anche soluzioni che in seguito sono state abbandonate, a vantaggio di quelle che da anni dominano la scena. Meritano di essere ricordate le prime Dunlop, costituite da un corpo principale centrale al quale erano fissati mediante viti i cilindri idraulici individuali.

 

Le prime Girling erano monoblocco, con due cilindri idraulici opposti ottenuti mediante foratura, praticata da un lato (l’altra estremità era cieca), dove successivamente veniva applicato un grosso tappo filettato di chiusura. Sulla Citroen DS 19, apparsa alla fine del 1955, venivano impiegate pinze che già prefiguravano la soluzione flottante, largamente affermatasi a partire dai primi anni Sessanta per ragioni di costo e di ingombro. 

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