Il disastro delle cinghie a bagno d’olio: perché il caso PureTech ha travolto solo Stellantis (ma Ford e Volkswagen non sono innocenti)

Il disastro delle cinghie a bagno d’olio: perché il caso PureTech ha travolto solo Stellantis (ma Ford e Volkswagen non sono innocenti)
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Il motore 1.2 PureTech non è nato difettoso. Ma Stellantis ha sottovalutato segnali d’allarme già emersi in Ford e Volkswagen. Ora paga il prezzo di un errore che poteva evitare
22 luglio 2025

Il caso delle cinghie di distribuzione a bagno d’olio montate sui motori PureTech ha travolto Stellantis come uno tsunami, tanto da costringere ai vertici un cambio di leadership e risarcimenti milionari. Ma quello che molti non sanno è che non fu Stellantis a inaugurare questa tecnologia. Prima di lei ci furono Ford e Volkswagen, che però ne uscirono quasi indenni. Perché?

La storia parte da una buona intenzione: ridurre i costi di manutenzione e migliorare l’efficienza nei motori a tre cilindri, inserendo la cinghia di distribuzione all’interno del motore, lubrificata dall’olio, per diminuire gli attriti. Una soluzione “elegante” sulla carta, ma piena di incognite.

Ford fu la pioniera, applicando il sistema nei suoi primi motori EcoBoost da 1.0 litri, a partire dal 2012. Poi arrivò Volkswagen, che adottò la cinghia umida su motori diesel, anche nei noti 1.6 e 2.0 TDI. Tuttavia, in casa VW la cinghia serviva solo per azionare la pompa dell’olio, non l’intero sistema di distribuzione, limitando così i rischi in caso di guasto.

Stellantis, invece, scelse la via più rischiosa: la cinghia sul PureTech era responsabile della sincronizzazione completa delle valvole. Una decisione che si rivelò fatale.

La promessa iniziale parlava di una durata fino a 240.000 km, ma la realtà è stata molto diversa. Le cinghie si screpolavano, si sfaldavano, e i residui finivano nei circuiti dell’olio, occludendo filtri, pompe e compromettendo la lubrificazione del motore. L'intervento che doveva costare 800 euro ogni sei anni divenne un incubo ogni tre anni o 60.000 km.

Ford, dopo i primi segnali di guasto, corresse il tiro passando alla catena nei suoi motori aggiornati. Stellantis, invece, provò soluzioni tampone: trattamenti superficiali, lacche protettive, aggiornamenti... ma nulla fermò la disgregazione delle cinghie. Solo nel 2022 arrivò la svolta con il passaggio definitivo alla catena nei motori con codice EB2LTED o EB2LTEDH2, oggi montati su modelli come Peugeot 408, Fiat 600 e Opel Frontera.

Volkswagen, dal canto suo, evitò il clamore perché il ruolo marginale della cinghia ne limitò le conseguenze. Eppure anche i suoi motori TDI 1.6 e 2.0 tra il 2012 e il 2018 montavano questa tecnologia. Lo stesso vale per alcuni modelli Audi, SEAT e Skoda

L’elenco dei veicoli coinvolti è lungo e non riguarda solo Stellantis:

  • Ford Fiesta, Focus, Puma, Kuga, Mondeo, con motori EcoBoost dal 2012.

  • Volkswagen Golf, Passat, Tiguan, e altri, con motori TDI 1.6 / 2.0.

  • Peugeot, Citroën, DS, Fiat, Opel, Jeep, Toyota Proace City e Aygo con il motore 1.2 PureTech dal 2014.

  • Persino Honda Civic (1.0 VTEC Turbo) figura tra gli interessati.

A oggi, Stellantis ha iniziato un programma di compensazione per i clienti colpiti, ma il danno reputazionale resta. Il caso ha assunto una portata paragonabile al Dieselgate, anche se le cause sono tecniche e non truffaldine.

L’errore? Aver creduto che la cinghia potesse durare quanto i pistoni. E aver ignorato i segnali che Ford e Volkswagen avevano già incontrato. Non è stata la tecnologia in sé a fallire, ma la fiducia cieca riposta in essa.

 

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