Luigi Battistolli, la sfortuna di Lucky

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Giovanni Bregant
  • di Giovanni Bregant
Un grande talento, fermato solo dalla necessità di dare priorità alla carriera di imprenditore. Ma oggi che guida un gruppo da oltre 3 mila dipendenti, a 69 anni Luigi Battistolli può finalmente dedicarsi ai rally con più continuità. E sempre da vincente
  • Giovanni Bregant
  • di Giovanni Bregant
7 febbraio 2019

Lo chiamano Lucky, ma la fortuna c’entra ben poco nella carriera rallystica di Luigi Battistolli. Anzi, a ben guardare con una sorte diversa probabilmente avrebbe potuto raccogliere ben altri trionfi. Non che la sua bacheca sia povera di coppe, comunque: il suo palmarès parla di 65 vittorie e 110 secondi posti in circa 250 gare disputate. Risultati che gli sono valsi – limitandoci a citare gli allori più prestigiosi - una Mitropa Cup nel 1979, due titoli di Campione Italiano Turismo di Serie nel 1976 e 1977, e in epoca più recente tre titoli di Campione Italiano Rally per vetture storiche (2016, 2017 e 2018), più un titolo ex equo nel 2014 sfuggito solo per avere disputato una gara in meno rispetto all’avversario, e sempre con le vetture storiche due titoli europei (2014 e 2017).

Originario di Posina, classe 1949, ha disputato la prima corsa nel 1974 e da allora non ha più smesso, sempre con quello pseudonimo ispirato a Lucky Luke, personaggio dei fumetti amato in gioventù. O meglio, ha smesso tante volte, ma a lungo andare il richiamo dei rally è sempre stato più forte. «Ben presto mi sono trovato a dover scegliere tra la mia carriera di pilota e l’azienda da portare avanti. All’epoca era una piccola impresa, tuttavia ambiziosa, che aveva in me praticamente l’unico riferimento: per l’attività commerciale, la gestione, a volte anche per la guida dei furgoni. Così già alla fine del 1977 decisi di smettere, rinunciando ad un contratto da pilota con la Fiat (all’epoca la massima aspirazione per un rallysta, ndr.) e ad un’altra proposta, addirittura triennale,sempre da pilota ufficiale da parte della Ford. Grandi opportunità, ma anche un impegno troppo oneroso da conciliare con la gestione dell’azienda».

Nel 1979 vince ugualmente, con una scuderia privata, la Mitropa Cup e tra l’81 e l’84 è due volte 2° e una volta 3° nella classifica finale del Campionato Italiano. Poi nel 1985 un nuovo stop.

«La motivazione era sempre la stessa: la priorità doveva andare all’azienda, che nel frattempo stava iniziando a svilupparsi in modo importante. Continuo a dedicarmi quasi esclusivamente al lavoro fino al 2001, disputando in questo arco di tempo, con team privati, solo poche gare, dove comunque continuo a risultare vincente o comunque competitivo. Poi nel 2001, avevo 52 anni, l’età di Andreucci oggi, smetto del tutto».

Anche questo ritiro però non sarà definitivo.

«Nel 2010 mi torna la febbre del volante, complice un progetto particolare che mi appassiona: tornare a correre nelle competizioni per rally storici con una Ferrari 308, vettura con cui avevo corso nel 1984 e che mi era rimasta nel cuore. Acquistiamo e ricostruiamo completamente una vettura e nel 2012 ricomincio a gareggiare con continuità nei rally storici».

E stavolta “Lucky” non smette più, passando poi alla Lancia 037 e nel 2018 alla Lancia Delta.

«Oggi l’azienda (il Gruppo Battistolli con 15 società operative tra cui la BTV SpA e la Rangers, leader nei servizi di trasporto valori e vigilanza, ndr.) è un gruppo con oltre 3.000 dipendenti, ben strutturato, e nella gestione sono affiancato da un amministratore delegato, da sei Direttori e da altri validi collaboratori responsabili dei diversi settori. Così ora posso finalmente dedicarmi ad una disciplina che per tanto tempo ho dovuto praticare con pochissimo tempo a disposizione».

Come ha trovato l’ambiente dei rally storici?

«È un mondo che è cresciuto molto negli ultimi anni, con piloti di qualità, tra cui molti miei ex colleghi che correvano da professionisti in gioventù. C’è grande competizione, ma allo stesso tempo è un ambiente più sportivo e amichevole rispetto al CIR».

Con le auto moderne da rally la velocità di percorrenza delle curve e la capacità di assorbire le sconnessioni della strada è incredibile, le storiche invece risultano più impegnative al limite

A proposito, è più difficile correre con una vettura moderna o storica?
«Sicuramente con le storiche, perché non possono contare sulla straordinaria evoluzione dell’elettronica e di altri componenti come ad esempio le sospensioni, che rendono le vetture moderne non solo più veloci, ma anche più prevedibili nelle loro reazioni. Con le auto moderne da rally la velocità di percorrenza delle curve e la capacità di assorbire le sconnessioni della strada è incredibile, le storiche invece risultano più impegnative al limite; anche sul piano fisico, le storiche sono più faticose. Tanto è vero che quando qualche pilota di buon livello con le vetture moderne corre con una storica, difficilmente è subito vincente. E poi c’è anche un aspetto emotivo: le storiche sono legate al periodo più importante della mia vita da pilota professionista».

Come è nato il progetto di tornare a correre con la Ferrari 308?

«Ci avevo corso nel 1984 ed ero rimasto affascinato dalla passione che sapeva scatenare quell’auto tra i tifosi. E poi naturalmente ci sono il prestigio del marchio, ma anche le sue caratteristiche tecniche, con performance rilevanti e quell’altezza così ridotta, il tetto è appena 80 cm da terra!»

Si diverte di più a correre sulla terra o su asfalto?
«Sicuramente correre sulla terra è più divertente, purtroppo in Italia si corre poco su questo fondo, un po’ per carenza oggettiva di strade, un po’ per una certa miopia degli organi decisori della federazione che - a parte il Rally d’Italia in Sardegna - non dà il giusto valore ad altre bellissime gare su terra che si disputano nel nostro Paese, in particolare in centro Italia».

Paura al volante mai?
«Premesso che anche le vetture storiche devono rispettare le caratteristiche di sicurezza delle auto moderne, a partire dal roll bar che viene ricostruito secondo i criteri attuali, in generale quando sei al volante non c’è mai la paura. Nemmeno quando esci di strada: l’adrenalina ti fa superare qualsiasi cosa e quando il controllo del mezzo è ormai perduto la mente aspetta solo che il mezzo si fermi, per capire se si potrà proseguire o meno. Semmai la tensione c’è prima del via, quando se senti di non essere del tutto preparato, sul piano personale, nelle note e nel mezzo, inevitabilmente ti fai una serie di domande su come andrà la gara e su quanto saranno difficili da battere gli avversari».

Nel frattempo la passione per i rally è diventata un affare di famiglia.

«Mia figlia maggiore, Lara, ha vinto tre titoli italiani femminili di seguito, nel 1999, 2000 e 2001, e da poco ha iniziato a correre anche mio figlio Alberto: devo riconoscergli una grande sensibilità al volante. Ha un buon potenziale».

A proposito di giovani piloti italiani, per loro era più facile emergere in passato?

«Sicuramente, perché avevamo tre case italiane, più le migliori marche estere che si conducevano una sorta di apprendistato sulla specialità in Italia, ritenuto il Paese dov’è questa disciplina era molto sentita e partecipata. Impegnate nei rally (per un periodo oltre a Fiat e Lancia c’è stata anche l’Alfa Romeo, General Motors, Ford, Renault ndr.), con la Lancia che ha corso nel Mondiale fino al 1992. C’era tutto l’interesse a valorizzare i nostri talenti. Oggi invece i big del Mondiale sono solo costruttori assemblatori e team stranieri e quindi è più facile che scelgano di valorizzare piloti di altre nazionalità. Non solo: all’estero c’è anche una cultura diversa, con le famiglie che spesso iniziano molto presto a supportare la carriera dei propri figli. In questo senso è emblematico è il caso di Kalle Rovamperä, che già a 6 anni stringeva un volante tra le mani».

Quale consiglio vuole dare, quindi, ai giovani piloti italiani?

«Il primo aspetto da affrontare purtroppo è quello economico: devono trovare uno sponsor, se la famiglia non è in grado, che possa finanziarne la carriera per un periodo sufficientemente lungo a valutare le loro effettive capacità, e nel farlo occorre affidarsi a team di alto livello, altamente professionali. Questo vuol dire lavorare fin da subito per realizzare un programma pluriennale, le gare spot non servono a molto. Il secondo consiglio, legato a questa considerazione, è quello di dedicarsi solo alle corse: devono pensare ai rally e lavorare per la loro carriera di pilota da mattina a sera, cogliendo ogni occasione, anche piccola, per stare a contatto con il team, svolgere test, imparare qualcosa di nuovo».

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