Ecco perché la trattativa Autostrade-Cassa Depositi e Prestiti viaggia veloce verso il fallimento

Ecco perché la trattativa Autostrade-Cassa Depositi e Prestiti viaggia veloce verso il fallimento
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  • di Luciano Lombardi
Soldi: ci sono loro alla base del possibile stop all'intesa che noi stessi avevamo ipotizzato già una settimana dopo l'annuncio dell'accordo
  • di Luciano Lombardi
24 settembre 2020

La faccenda è di quelle dai risvolti quasi esoterici , dato l'intreccio politco-finanziario-tecnico di rara complessità che vi sottende.

Stiamo parlando della procedura di cessione di una quota molto consistente del patrimonio azionario di Aspi, l'acronimo di Autostrade per l'Italia, cioè la società controllata dalla famiglia Benetton che ha come attività la gestione in concessione di tratte autostradali, nonché lo svolgimento della relativa manutenzione.

Prima di entrare nel vivo, facciamo un passo indietro, riavvolgendo il nastro fino alla metà dello scorso luglio, cioè al momento del raggiungimento dell'intesa sulla transazione delle quote di Autostrade detenuta da Atlantia, con i Benetton che annunciavano l'uscita dal Cda e il passaggio del possesso dell'88% a quello di una quota di minoranza variabile tra il 10 e il 12%. Contestualmente, lo stesso accordo prevedeva che lo Stato entrasse nella società con un pacchetto di maggioranza del 51% attraverso la Cassa Depositi e Prestiti.

Dopo quasi due mesi di calma piatta caratterizzati da un singolo picco di attenzione mediatica nel quale si dichiarava che l'intesa procedeva dritta sulle giuste corsie e che si stava avvicinando alla conclusione con una velocità perfino superiore al limite concesso, oggi arriva un fulmine. Inatteso per molti, ma non per noi, ci teniamo a dire senza alcuna presunzione, visto che in questo articolo di Enrico De Vita del 24 luglio, elencavamo una serie questioni aperte e non derogabili che avrebbero potuto facilmente interrompere il processo.

In particolare, al capoverso Il bene pubblico, l'autore scriveva: “Quanto costerà allo Stato, cioè a noi, entrare nel capitale, fino a ridurre la quota della famiglia Benetton a uno sbandierato 10-12%? Abbiamo visto tutti in borsa il balzo del 27% nella quotazione della società il 16 luglio, il giorno dopo l’accordo. Significa semplicemente che il valore delle azioni possedute dalla famiglia (l’88% del totale) è cresciuto in una notte di oltre 700 milioni di euro, dopo che aveva perso il 23% nella settimana precedente. Ora lo Stato vuole entrare nell’azionariato, ma nell’accordo non c’è scritto a quale costo. Si tratterà di un aumento di capitale, ma chi lo decide e a quali condizioni?”.

Detto, fatto. Anche senza sforzarsi troppo nello sbrigliare la matassa di sui si è detto in partenza, il succo è questo: c'è un problema di soldi. Ecco perché: già nelle prime fasi della negoziazione, il Cda di Atlantia aveva dichiarato la necessità di non penalizzare in alcun modo i piccoli risparmiatori, ritenendo che potessero essere loro gli arbitri della partita, ma senza (volutamente?) fare i conti con il vero "oste", cioè tutti quei big della finanza che hanno le mani bene in pasta nella compagine azionaria. Parliamo di colossi bancari, fondi di investimento, gruppi assicurativi e, ultimo non ultimo, lo stesso gruppo Benetton, nessuno dei quali si dice ora disposto, nemmeno per scherzo, ad accettare che la cessione di quell'88 per cento potesse avvenire con una contropartita inferiore a quella di mercato.

Questo requisito, invece, Cassa Depositi e Prestiti lo intende negoziare trovando, invece che, dall'altra parte del ponte, si fa orecchio da mercante.

Il prossimo passo sarà scrivere al Governo una lettera nella quale lo si informerà della volontà di ritirarsi dalla trattativa.

E con tutta probabilità, le cose andranno proprio così, con buona pace di chi ha avuto l'ingenuità (o il coraggio?) di cantare vittoria senza neppure sapere esattamente quale battaglia si stava combattendo.

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