Fabrizia Pons: una vita a tutto gas. In auto e moto

Fabrizia Pons: una vita a tutto gas. In auto e moto
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  • di Claudio Pavanello
La sua è stata una carriera incredibile: pilota di rally, navigatrice di fama miondiale, ma anche unica crossista italiana degli anni ‘70. Una esperienza dai toni molto forti, come ci racconta lei stessa
  • di Claudio Pavanello
14 gennaio 2013

Nella “Hall of Fame” di coloro che hanno attraversato da protagonisti differenti epoche del motorismo sportivo, vivendo in prima persona episodi storici del nostro sport, Fabrizia Pons merita sicuramente un posto di rilevo. Se è oggettivamente impossibile dire chi sia stato il migliore navigatore italiano di tutti i tempi, non crediamo esistano dubbi nel potere definire Fabrizia come la più apprezzata a livello internazionale, avendo corso, tra mondiale rally e rally raid, come ufficiale Audi (1981-1985), Ford (1994), Citroen (1995), Mitsubishi (1995), Subaru (1996-1998) e Volkswagen (2003-2007), oltre che per squadre mitiche come Jolly Club, Quattro Rombi e Grifone.

Ma in realtà il curriculum di Fabrizia non si limita a quello, straordinario, di navigatrice, riassumibile in 224 gare complessive disputate, di cui 88 mondiali. Nel suo palmares ci sono infatti anche quattro titoli italiani femminili come pilota. E non è finita qui, perché la passione della torinese si è declinata in modo spettacolare anche nelle due ruote, essendo stata l’unica donna pilota a correre con continuità nel panorama nazionale Motocross tra il ’71 ed il ’75. Una esperienza dai toni molto forti, come ci racconta lei stessa.

«Il motocross è stato il mio primo grande amore, ed ancora oggi mi appassiona molto. Non so come è nata la scintilla, non è che avessi amici o parenti appassionati. A quindici anni mi feci regalare dai miei una Aspes 50, ufficialmente per andare a scuola, con cui cominciai però a correre nella categoria Cadetti, che ben presto lasciò spazio ad una Ancillotti 125. In famiglia rimasero decisamente sconcertati da questa passione, che mi spingeva anche a lavorare sulle moto, smontandole e rimontandole in continuazione. Dal ’59, quando avevo quattro anni, al momento del debutto nel cross nel ’71 avevo fatto solo danza classica, il cambiamento era abbastanza drastico!»

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Il motocross è stato il mio primo grande amore, ed ancora oggi mi appassiona molto

 

Come è proseguita la tua carriera nel cross
«Dopo l’Ancillotti ebbi la cattiva idea di guidare una KTM 125, una moto brutale, con i cavalli solo in alto, che ricordo bene per averci passato un sacco di tempo incastrata sotto. Passai poi in 250 con una Maico testa quadra, più malleabile ma tanto pesante. A ripensarci, credo che fui abbastanza incosciente nel dedicarmi al cross, perché le moto di allora erano veramente ruvide e pesantissime, richiedendo uno sforzo fisico esagerato per una donna, cosa che mi portò  in quel periodo ad essere probabilmente il migliore cliente del reparto di Ortopedia a Torino.  Comunque, se stavo in piedi, riuscivo talvolta a raggiungere il mio obiettivo, ovvero entrare nelle batterie. Quando accadeva, grazie anche al mio peso contenuto, ero celebre per riuscire a fare partenze brucianti e affrontare  spesso in testa l’entrata della prima curva. Purtroppo solo quella però, perché poi venivo inevitabilmente risucchiata! Nel ’74 trovai addirittura un Commissario Sportivo che mi autorizzò a passare di licenza, correndo negli Juniores: non so se fui più folle io a volere fare questo salto, o lui a darmi il benestare!»

Come finì la tua esperienza motociclistica?
«Nel ’75 la Moto Villa mi diede una 250 “ufficiale”, ovviamente non per meriti sportivi ma perché comunque la mia presenza suscitava attenzione nei media. Purtroppo nel cercare di domarne i circa 50 cavalli ebbi un ennesimo incidente, e per alcune settimane rischiai l’amputazione del piede. Era veramente troppo, anche per la mia famiglia. Quella del cross è comunque stata una esperienza folle e fantastica»

Dopo l’Ancillotti ebbi la cattiva idea di guidare una KTM 125, una moto brutale, con i cavalli solo in alto, che ricordo bene per averci passato un sacco di tempo incastrata sotto


Quindi decidesti di correre nei rally…..
«Usai sempre lo stesso trucco, mi feci regalare una A112 Abarth 70hp, montai cinture e roll-bar e andai subito  a correre, senza neanche aver fatto il rodaggio. A sorpresa vinsi al debutto la mia Classe, e di conseguenza i commissari mi smontarono bullone per bullone la mia bella macchina nuova: me la restituirono praticamente in uno scatolone, rimasi esterrefatta»

Negli anni in cui hai corso hai sempre vinto il titolo italiano femminile. Fu una soddisfazione o trovavi questo campionato poco stimolante?
«Allora i rally vedevano una partecipazione interessante di pilotesse, quindi imporsi come la più veloce era comunque un bel risultato. Però io correvo guardando la classifica generale, e devo dire che non andavo proprio piano : nel ’78 ad esempio fui nona assoluta e terza di Gruppo 1 al Sanremo con la Kadett GTE della Opel Italia, rimanendo per lunghi tratti sotto la pioggia anche in testa al Gruppo.
A fine ’78 volevo però assolutamente cercare di salire su di un Gruppo 4 che mi consentisse di vincere una gara: nonostante tutti i miei sforzi, non riuscii però a trovare nessuno che mi offrisse una 131 o una Stratos, di conseguenza presi la decisione che non valeva la pena proseguire in quello che era ormai un impegno professionale a tempo pieno, e annunciai il ritiro. Però a quel punto si fece avanti Lucky, allora tra i migliori piloti italiani, il quale mi chiese di navigarlo nella Mitropa Cup ‘79, che vincemmo con la 131 Abarth della Quattro Rombi, la celebre squadra  dei concessionari Fiat veneti»

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L’esperienza Audi fu bellissima e faticosa: appena salita sulla Quattro compresi subito che era una vettura diversa da tutte le altre, destinata a convertire i rally alla trazione integrale, ma il suo sviluppo non fu facile

 

Come è avvenuto nel 1981 l’ingresso nello squadrone Audi, al debutto con la famosa Quattro gruppo B?
«Fu un giornalista, Carlo Cavicchi, a fare il mio nome ai vertici Audi che volevano costituire un equipaggio tutto femminile con Michèle Mouton pilota. Fui avvantaggiata dal sapere bene il francese, per navigare Michèle, e inglese, per parlare con i tecnici»

Quello che i vertici Audi non si aspettavano sicuramente è che il loro equipaggio “rosa” nel 1982 sarebbe andato forte come Mikkola e Blomqvist, contendendo fino all’ultima gara il titolo mondiale piloti alla Opel di Rohrl. Come ricordi quel periodo?
«L’esperienza Audi fu bellissima e faticosa: appena salita sulla Quattro compresi subito che era una vettura diversa da tutte le altre, destinata a convertire i rally alla trazione integrale, ma il suo sviluppo non fu facile. Le prime erano scorbutiche, con molto sottosterzo; Michèle non parlava inglese, quindi dovetti fare io da tramite con i tecnici tedeschi, ed in questo mi aiutò molto essere stata una pilota, per trasferire al meglio le sensazioni. Proprio perché ci costruimmo assieme un po’ alla volta la macchina, il trionfo al Sanremo ’81, prima vittoria di un equipaggio femminile nel mondiale, fu favoloso, e la stagione ’82 memorabile: andammo veramente vicine al titolo, fu una grande amarezza perderlo sul filo di lana»

Come equipaggio femminile nello squadrone Audi, in che maniera eravate trattate dal team?
«In cinque anni non ricordo un episodio in cui non siamo state trattate esattamente alla stregua degli altri. Anche perché Michèle non aveva nulla da invidiare ai vari Mikkola, Blomqvist o Rohrl in termini di pilotaggio o carattere: faceva tantissima palestra, veniva da una vettura impegnativa come la 131 Abarth ed aveva una determinazione pazzesca»

L'Audi Quattro era una vettura che trasmetteva il senso della velocità: vibrava, ruggiva, ti avvertiva dei limiti, ti teneva in tensione


La Quattro fu la prima gruppo B di nuova generazione, vetture straordinarie ma considerate troppo pericolose, fino ad essere abolite: tu avevi paura?
«Dopo tutto il male che mi ero fatta in moto, non avevo paura più di nulla! Scherzi a parte, la Quattro andava forte, ma era ancora una macchina per certi versi tradizionale, con il suo bel motore davanti che dava almeno l’idea di proteggerti. Inoltre era una vettura che trasmetteva il senso della velocità: vibrava, ruggiva, ti avvertiva dei limiti, ti teneva in tensione. Al Tour de Corse ’86, segnato dalla tragica morte di Henri Toivonen e Sergio Cresto, navigai la Mouton, che era passata in Peugeot al volante della 205 Turbo 16.  Mi accorsi subito che quella splendida vettura non solo andava fortissimo, ma lo faceva con sconcertante facilità, senza dare all’equipaggio l’idea del limite, e pensai che la cosa poteva essere potenzialmente molto pericolosa. Tuttavia, nonostante anche in macchina abbia talvolta preso dei gran botti, non ho mai avuto veramente paura durante le gare. Io mi fido sempre ciecamente del mio pilota, come d’altronde lui deve fare con me. Ritengo che questa assoluta fiducia reciproca, questo feeling, siano essenziali perché un equipaggio funzioni»

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Onestamente pensavo con i bambini di chiudere la mia carriera. Poi però mi convinsero a rientrare con le storiche; dopo due anni di gare pensai che, visto che ormai avevo cambiato idea, tanto valeva cercare di tornare ai massimi livelli

 

Dopo lo stop per matrimonio del 1986 e la doppia maternità è arrivato Vatanen…
«Onestamente pensavo con i bambini di chiudere la mia carriera. Poi però mi convinsero a rientrare con le storiche; dopo due anni di gare pensai che, visto che ormai avevo cambiato idea, tanto valeva cercare di tornare ai massimi livelli, quindi accettai l’offerta di Ari. Corremmo cinque rally mondiali con la Escort Cosworth nel ’94, ottenendo un terzo posto in Argentina. L’anno dopo lo seguii nella nuova entusiasmante avventura dei Rally Raid con la Citroen, vincendo in Marocco ed in Portogallo. Ari è un grandissimo pilota ed una persona straordinaria e gli sarò sempre riconoscente per avermi introdotto nel mondo dei Raid, facendomi scoprire una nuova interpretazione del mio lavoro, molto impegnativa e coinvolgente, che riprenderò tra il  2003 ed il 2007 con Jutta Kleinschmidt e la Volkswagen Touareg»

Dal ’96 al ‘98 di nuovo nel Mondiale Rally con Liatti e la Subaru ufficiale: quali furono i momenti chiave di quel periodo?
«Anche se non è tra i miei rally preferiti, vincere il Montecarlo ‘97 fu una grande emozione. In generale, in Subaru eravamo la seconda guida di un team inglese costruito attorno a McRae, e in questo quadro si inserisce il famoso episodio del Sanremo dello stesso anno, quando ci fu chiesto di cedere la vittoria. Onestamente io me l’aspettavo, ed avevo cercato di preparare Piero a questo possibile evento, che, visti gli investimenti della Casa giapponese per vincere il titolo piloti, posso anche comprendere. Certo che privare un equipaggio italiano di una vittoria nella gara di casa è una cosa grossa, e purtroppo non furono scelti i modi migliori per chiedercelo»

Fabrizia, la gara più bella? La più difficile? Il pilota con cui avresti voluto correre? Il tuo navigatore modello?
«La più bella non è una vittoria, ma il terzo posto nel Safari ’83, che conducemmo a lungo prima di avere un problema di cerchioni. Quando ero piccola, la gara africana era il mio sogno, e consideravo il correrci come punto di arrivo. La più difficile ancora il Safari, edizione ‘97, dove tutte le vetture dei  team ufficiali avevano per ogni equipaggio un elicottero con a bordo un ulteriore navigatore. L’elicottero ci seguiva costantemente, avvertendo di eventuali pericoli o della presenza di persone, vetture o animali, e quindi dovetti gestire per la prima volta in contemporanea le mie note, quelle via radio in inglese dall’elicottero direttamente nel casco, tradurle a Piero ed anche prestare attenzione alle indicazioni del team. Non ho un modello come navigatore, ma guardo con grande riconoscenza ad Arne Hertz, co-equiper di Mikkola all’Audi, che mi spiegò tante cose del mondiale rally, comprese le pazzesche carte militari del RAC. Mi sarebbe piaciuto navigare Sainz nei Rally»

La gara più bella della mia carriera non fu una vittoria, ma il terzo posto nel Safari ’83, dove conducemmo a lungo prima di avere un problema di cerchioni


Come è cambiato il tuo lavoro dai tempi dell’esordio a quelli attuali?
«Il mio lavoro non è molto cambiato, alla fine scrivere le note e leggerle non ha subito variazioni nel corso degli anni; certo, ora l’elettronica da una grossa mano nel controllo della gestione della gara. Una volta poi il navigatore, ma anche il pilota, era più coinvolto nella strategia, nella scelta delle gomme, mentre ora ci sono delle figure nel team che sono specializzate e preposte a queste decisioni strategiche, e l’equipaggio di solito si adegua»

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