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È entrato in vigore alla mezzanotte americana il nuovo pacchetto di dazi voluto dal presidente Donald Trump, che colpisce oltre 60 paesi, inclusa l’intera Unione Europea. Le nuove tariffe, comprese tra il 15% e il 41%, rappresentano una delle più vaste revisioni della politica commerciale americana degli ultimi decenni, e i riflessi sull’industria automobilistica – soprattutto europea – non tarderanno a farsi sentire.
Tra i settori più esposti ci sono infatti l’automotive e la componentistica, comparti in cui Europa, Giappone e Corea del Sud giocano un ruolo cruciale per l’importazione verso gli Stati Uniti. I nuovi dazi fissano una soglia minima del 15% su tutte le importazioni da questi Paesi, mettendo sotto pressione marchi come Volkswagen, BMW, Mercedes-Benz, Hyundai, Kia e Toyota, tutti fortemente presenti nel mercato americano.
Fino a oggi, modelli prodotti in Europa come Audi Q5, BMW X1 o Mercedes GLC godevano di un margine competitivo grazie a tariffe doganali più contenute. Con i nuovi dazi, però, i prezzi al dettaglio rischiano di salire anche di 2.000-4.000 dollari per veicolo, salvo strategie di compensazione da parte dei costruttori. Un problema non da poco in un mercato dove il costo finale e la percezione del brand pesano moltissimo nella scelta d’acquisto.
Anche la componentistica rischia di subire pesanti contraccolpi: molti fornitori europei esportano in USA sistemi elettronici, cambi automatici, moduli di infotainment e batterie, oggi tutti soggetti a nuove imposte. Questo potrebbe aumentare i costi anche dei veicoli prodotti negli Stati Uniti, ma con componenti d’importazione.
Il clima di incertezza potrebbe costringere le case automobilistiche a rivedere le catene di fornitura e a valutare un aumento della produzione direttamente sul suolo statunitense, proprio come auspicato da Trump. L’obiettivo dichiarato del presidente è quello di “riequilibrare gli scambi” e incentivare gli investimenti diretti negli USA.
Tuttavia, non è detto che tutti i costruttori siano pronti a rispondere nell’immediato. Alcuni brand come Volkswagen e Hyundai dispongono già di impianti produttivi negli Stati Uniti, ma altri – specialmente i marchi di nicchia o premium – potrebbero trovare difficile giustificare nuovi investimenti su scala industriale in un mercato ora più volatile.
Non è la prima volta che un presidente americano usa lo strumento dei dazi per influenzare l’equilibrio commerciale globale. Ma se nel 2018 le tariffe su acciaio e alluminio crearono già forti tensioni con Bruxelles, l’ondata del 2025 ha un impatto molto più ampio e sistemico, colpendo non solo l’Europa ma anche Giappone, Corea del Sud, India, Vietnam e Taiwan.
Il presidente Trump ha dichiarato che “miliardi di dollari inizieranno ad affluire negli USA” e che “la crescita sarà senza precedenti”. Tuttavia, secondo molti analisti, le prime crepe si stanno già facendo sentire anche per l’economia americana, con un rallentamento degli scambi e una crescente incertezza per gli operatori.
Curiosamente, nel pacchetto di dazi appena entrato in vigore non è menzionata la Cina, almeno in questa fase. Una mossa che potrebbe essere letta come una strategia tattica, in attesa di negoziati più articolati. E proprio da Pechino potrebbero arrivare benefici imprevisti, specialmente per il segmento delle auto elettriche, dove i marchi cinesi – da BYD a Nio – guardano con crescente interesse al mercato USA.