Il Bar della Dakar 2020. Marathon, il raddoppio

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Piero Batini
  • di Piero Batini
Tappa Marathon è quando due tappe sono unite tra l’oro dal divieto di riceve assistenza esterna. Non è esattamente il raddoppio dell’impegno e del rischio, ma quasi. Altre riflessioni prima di chiudere il Bar. Thierry Sabine
  • Piero Batini
  • di Piero Batini
15 gennaio 2020

Haradh, Arabia Saudita, 14 Gennaio 2020. Il Bar questa sera chiude presto. Non c’è nessuno. Tutti a letto presto. Chi può. Gironzola ancora qualche Motociclista Original Motul, che sarebbero le vecchie Malles Moto, alle prese con un problema. Si prende una pausa per decidere come operare, prende un caffè e trova la soluzione. Oppure qualche Meccanico che viene a fare una pausa prima di ricominciare a lavorare. Turni lunghi e a seguire fino all’alba. Poco tempo per lo svago. Tutto il bivacco è concentrato e proiettato sulle prossime due giornate di gara. La terz’ultima e la penultima. È lì che gli organizzatori hanno deciso di piazzare la Tappa Marathon.

Senza assistenza, senza camion e generatori, senza Meccanici. Questa è la Tappa Marathon. Si ha diritto a darsi una mano tra Concorrenti, a fare da soli con quello che si ha addosso, sulla Macchina e sulla Moto. Beh, anche su quello che si ha sull’eventuale camion di assistenza in gara. Il mondo non è mai uguale per tutti. Gli organizzatori comunque mettono a disposizione dei concorrenti un camion-officina. Aria compressa, saldatrice, chiavi, cacciaviti e attrezzi, lubrificanti. Luce. Dio, e il Dakariano, sanno quanto serve. Tutto a disposizione, tranne… il meccanico. Un’officina self-service, per di più gratis. Beh, obiezione. Alla Dakar non è gratis neanche l’aria che si respira!

Per i motociclisti c’è anche l’obbligo di punzonare i penumatici alla vigilia della doppia tappa che compone la Marathon, e di conseguenza di trattare gomme e cerchi come le cose sante. In generale il ritmo di gara scende. Basta, infatti una caduta per obbligarsi a una notte di lavoro condannando il riposo. Vale soprattutto per i privati, ma anche agli ufficiali può capitare la circostanza in cui la Marathon diventa cruciale.

 

Cornejo, Brabec, Walkner, Price
Cornejo, Brabec, Walkner, Price

Marathon strategy

Haradh-Shubaytah, 74 chilometri di trasferimenti + 534 di Prova Speciale, e il ritorno da Shubaytah a Haradh, 365 chilometri + 379 di Speciale. In totale sono oltre 1.300 chilometri che riportano la Dakar alle follie della prima ora, quando i concorrenti potevano star fuori giorni e giorni prima di trovare e tagliare un traguardo. Naturalmente oggi è solo una citazione, le cose sono enormemente cambiate. Questo non toglie che confezionare una Marathon di questa importanza nel finale del Rally vuol dire obbligarlo a trattenere il fiato fino all’ultimo giorno. Vuol dire inoltre mettere comunque tutti su un piano similare. Basta pensare alla democratizzazione del divieto di poter disporre, chi ce l’ha, del proprio motorhome durante la Marathon.

Tatticamente è il momento di fare gioco di squadra. È chiaro, per esempio, che tutti i piloti Honda saranno a disposizione di Brabec per qualsiasi occorrenza, così come è chiaro che ogni Toyota non avrà… gomme che per Al Attiyah. A proposito, più delicata è la questione delle Mini Buggy, poiché sono due, entrambi gli Equipaggi sono in corsa per il successo finale, Sainz e Peterhansel, e le due ruote motrici utilizzano pneumatici progettati e costruiti apposta, e quindi poco diffusi, esclusivi. Poi, naturalmente, ci si può mettere s’accordo. Non sono pochi, nella storia della Dakar, gli episodi di speciali “contratti” siglati con una promessa e una stretta di mano alla vigilia di una Marathon. Spesso si tratta di accordi che promuovono, anche per un solo giorno, un privato al ruolo di assistente di un ufficiale.

 

La Prova

Fernando Alonso sta meglio di giorno in giorno. Tutta la mia stima, per quello che vale la stima di un barista, che parla poco e ascolta tutti. Non viene al Bar perché naturalmente ha il suo bivacco ufficiale Gazoo Racing, ma parla con tutti. È felice. La trasformazione è evidente. Un tempo sosteneva di poter aspirare al massimo a un podio e che non avrebbe mai vinto una Dakar. Oggi che il podio l’ha conquistato l’asticella è stata alzata automaticamente, e c’è da supporre che oggi Alonso non possa più dire di non poter vincere una Dakar. Alonso va prendendo confidenza con la Dakar. Si sarà reso conto che la sensazione della velocità non sarà strepitosa, ma quella del rischio che può esserci dietro a una curva o oltre la cresta di una duna, sì, è una sensazione forte. Si sarà accorto che alla Dakar ogni giorno ti toccano dai 5 ai dieci spaventi, e che “tenere giù” il piede non è solo coraggio ma anche… un piede nell’ignoto.

Tutto questo per dire che se la sta cavando bene. Ma anche che il bi-Campione del Mondo di Formula 1 è atteso a una nuova, importante prova. Chissà ora come la prenderà a mangiare al volo un piatto caldo e infilarsi nel sacco a pelo prima che cali la glaciazione del Deserto.

Un’ultima cosa prima di tirare giù la saracinesca. Oggi è il 14 Gennaio. Non è per voler fare di questa Dakar un macabro calendario dell’avvento, ma il 14 Gennaio del 1986, alle 19:20, Thierry sabine, l’inventore della Dakar, perse la vita nell’incidente di elicottero in cui trovarono la morte anche il cantautore Daniel Balavoine, il pilota François-Xavier Bagnoud, la giornalista Nathalie Odent e il tecnico radio Jean-Paul Le Fur.

Fu un anno tragico, non fu il solo incidente, la Dakar andò allo sbando. Io ero lì, da perfetto e impacciato turista in moto. Impossibile seguire il ritmo di quella carovana. La incrociavi un giorno, la ritrovavi dopo due, poi la mancavi di un soffio. Passava veloce, rumorosa, colorata. Non era una meteora. 34 anni dopo, in pieno Capitolo 3, lo sappiamo.

 

Un saluto, Thierry

 

© Immagini ASO/DPPI/Delfosse/Flamand/LeFloch/Vargiolu/Gooden – X-raid – RedBull Content Pool - Yelles M.C.A

Fernando Alonso
Fernando Alonso

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