F1 Giappone 2013: le curiosità del GP di Suzuka

F1 Giappone 2013: le curiosità del GP di Suzuka
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Paolo Ciccarone
Le curiosità del GP di F1 del Giappone, dai treni superveloci alle toilette inutilizzabili fino ai "golpe" in albergo | <i>P. Ciccarone, Suzuka</i>
8 ottobre 2013

Tanto per cominciare, bisogna arrivarci a Suzuka. Che non è proprio al centro del mondo. Quando si parla di Giappone, la curiosità dell’interlocutore prende il sopravvento su tutto. Puoi dire che sei stato in Uganda, in Canada, in Messico, ma quando dici: Giappone, allora gli occhi di chi ti sta di fronte si illuminano e cominciano le domande più strane e incredibili.

Dall'aeroporto con... dolore!

E allora, parlando di Suzuka e del Gran Premio del Giappone, tanto vale procedere per gradi e partire dall’inizio: come arrivare a Suzuka. Che non è impresa di tutti i giorni e nemmeno facile. Due sono le strade possibili per la truppa europea: la prima via Tokyo, arrivando da Seoul, poi da qui, con altro volo o treno superveloce, si va verso Nagoya e da qui fino a Shiroko, con un altro treno locale, e dalla stazioncina di Shiroko bisogna poi riuscire nell’impresa di trovare un taxi (con un tassista che abbia capito tutto o almeno una parte di quello che dici) che ti porti a Suzuka di fronte al Circuit Hotel.

Tempo totale, per queste ultime operazioni che sembrano le più semplici, dalle quattro ore e mezza in poi. La seconda via, la più praticata da alcuni, passa da Osaka. Dall’aeroporto di Kensai, progettato da Renzo Piano, fino alla stazione si prende un metrò di superficie molto rapido e comodo, ma anche spettacolare, specie quando lascia l’isola artificiale, che nel corso degli anni si è inclinata di 11 centimetri. Niente paura, se la torre di Pisa è ancora in piedi dopo 700 anni, non cadrà certo l’aeroporto.

Le controindicazioni della seconda opzione

Usciti dalla saletta di sbarco, tutta in metallo, si prende la metropolitana, che poi è un treno superveloce che porta alla stazione di Namba. Comprato il biglietto, capito dove bisogna sedersi, si affrontano 40 minuti attraverso ponti, viadotti e mare tutto intorno. Appena scesi dal trenino dell’aeroporto e si mette piede nella stazione di Osaka, comincia l’avventura.

Giunti alla stazione di Osaka Namba una babele di scritte, tutte in giapponese, indicano i vari vettori: in Giappone le ferrovie sono private e ci sono diverse linee e diverse stazioni, tutte all’interno della stessa costruzione. Un po’ come se dalla stazione Centrale di Milano o dalla Termini di Roma partissero treni per la stessa destinazione ma di due o tre compagnie diverse, un po’ come accade con gli aerei.

Bisogna stare attenti a non sbagliare il treno. Una volta Giancarlo Minardi e il suo staff salirono su un convoglio sedendosi al posto assegnato, scatenando le proteste dei passeggeri saliti alla stazione dopo: il team aveva infatti scoperto che il treno preso non era quello giusto, perché era quello che partiva un minuto prima di quello prenotato


Si può andare a Parigi con Alitalia, Air France ma anche con altri vettori low cost. In Giappone si può prendere un treno dalla stessa stazione per andare nello stesso posto scegliendo la linea migliore. Trovato lo sportello giusto per acquistare il biglietto per Shiroko o Tsu o Yoccaichi, si comprano i biglietti per la Kintetsu line, il gestore privato i cui treni fermano là dove dobbiamo andare. Per completare l’operazione, abbastanza semplice in sé, ci vogliono almeno 40 minuti a piedi fra i meandri della stazione, con le valigie al seguito e senza carrelli. Basterebbero 10 minuti, forse, ma ci si perde sempre ad ogni incrocio…

Attenti a non prendere il treno che parte un minuto prima...

Col biglietto in mano in bella evidenza, con le valigie al seguito, bisogna stare attenti a non sbagliare il treno. Ne partono ogni due minuti. Una volta Giancarlo Minardi, e lo staff della sua squadra, salì su un convoglio sedendosi al posto assegnato, scatenando le proteste dei passeggeri saliti alla stazione dopo: il team aveva infatti scoperto che il treno preso non era quello giusto, perché era quello che partiva un minuto prima di quello prenotato in effetti.

In Italia vedere un treno arrivare in stazione un minuto prima o dopo l’orario è già un fatto eccezionale, meritevole di una apertura nei telegiornali. Logico, per noi italiani, e la Minardi era italiana, salire sul primo treno che passa all’orario utile. Invece no, il convoglio era quello sbagliato perché quello giusto passava un minuto dopo. Che cambia? Che tutti i posti sono prenotati e secondo lo stile del passeggero giapponese medio, se il sedile assegnato è occupato e c’è un intero vagone libero, questi non va a sedersi da un’altra parte, ma pretende il suo posto, numero, scompartimento e fila prevista.

Noi italiani, invece, se il nostro posto è occupato e ce ne sono altri liberi, non ci facciamo tanti problemi e occupiamo quello che ci pare. Inutile dire delle proteste dei viaggiatori giapponesi, infuriati per l’invasione italica e nel vedere valigie e gente in piedi sul treno: inammissibile. In Giappone, almeno, da noi è più normale…

Sono state circa tre ore di viaggio con un rapido apprendimento degli insulti in giapponese. Un nipponico non dice mai parolacce in pubblico, vietatissime, ma usa concetti astratti che si avvicinano molto alla realtà


Sono state circa tre ore di viaggio in queste condizioni, con un rapido apprendimento degli insulti in giapponese. Un nipponico non dice mai parolacce in pubblico, vietatissime, ma usa concetti astratti che si avvicinano molto alla realtà. Per esempio, non dirà mai “figlio di…” in maniera diretta, ma si esprimerà nel tono tipico di chi dice che la genitrice, probabilmente, non è stata del tutto attenta al momento del concepimento, visto che era intenta a svolgere mansioni non propriamente adeguate al rango di una signora.

Il viaggio vi ha sfinito? Dovete ancora arrivare in circuito!

Mentre il treno va, attraversando campi irrigati, fiumiciattoli e montagne, si arriva a Tsu o a Yoccaichi. Sono le due cittadine, a 20 km da Suzuka, (la prima a sud, la seconda a nord del circuito) dove lo staff dell’organizzazione “obbliga” gli stranieri a dormire. Infatti ci sono alberghi e ristoranti, nonché bar, rigorosamente vietati agli occidentali. Noi siamo considerati “gaijin”, barbari, e pertanto non possiamo prenotare dove ci pare, mangiare dove capita e bere nei bar riservati ai nipponici.

I piloti e i meccanici, invece, sono ospitati al Suzuka Circuit Hotel, a poche centinaia di metri dalla pista. Per andare dall’albergo imposto ai giornalisti, al circuito ci sono degli autobus gratuiti, uno ogni ora, fermi sul piazzale della stazione, vicino alla quale sorgono gli alberghi che ospitano i giornalisti. Questi autobus in meno di 60 minuti portano i giornalisti e i fotografi al circuito. Avete letto bene: meno di 60 minuti per fare 20 km. Perché? Perché se anche c’è la fila davanti all’ingresso e uno vuole scendere, facendosi l’ultimo tratto a piedi, l’autista sarà inflessibile perché ha ricevuto l’ordine di scaricarti in un punto ben preciso e da quell’ordine non si smuove.

Detto come arrivare in pista, il vero dramma è la camera in albergo. E’ una vera e propria lotta senza esclusione di colpi. Di solito è un locale di tre metri per due. Quando la valigia è per terra, tu sei nel letto. E viceversa. Il bagno, un metro per cinquanta centimetri, è ricoperto di plastica rosa-beige, tipo roulotte


Per capire invece quale autobus è quello giusto alla stazione, non è difficile: dopo il terzo tentativo, e ricevuto il rifiuto dei vari autisti, un omino in guanti bianchi e berretto bloccherà tutti gli occidentali sul piazzale della stazione e li obbligherà a salire sul bus. Se per caso sei in zona come turista, non la scampi: devi andare a Suzuka…

Siete arrivati in circuito? Provate allora ad andare in albergo...

Detto come arrivare in pista, il vero dramma è la camera in albergo. E’ una vera e propria lotta senza esclusione di colpi. Di solito è un locale di tre metri per due. Quando la valigia è per terra, tu sei nel letto. E viceversa. Il bagno, un metro per cinquanta centimetri (scherzi a parte, di solito non è più grande…), è ricoperto di plastica rosa-beige, tipo roulotte. Tutte le volte che entri e chiudi la porta, temi che la roulotte parta davvero.

Il lavandino, piccolo, basta per una mano alla volta, la doccia va bene se riesci a stare seduto in quaranta centimetri quadrati o sei alto al massimo un metro e cinquanta. Tipo Brunetta, per intenderci… E poi c’è la tazza del water: complicatissima, accessoriata e con le istruzioni. C’è infatti una tabellina sul fianco del water con i disegni e le istruzioni su come fare la pipì e il resto.

Come sedersi, posizione delle mani (vabbè, succede…), come “operare”, come tirare lo sciacquone e, soprattutto, come programmare il getto d’acqua calda e dell’aria calda (tipo phon) che fa da bidè. Sul fondo della tazza, infatti, è nascosto un piccolo capolavoro di ingegneristica idraulica col preciso compito di spruzzare acqua calda e fredda e il getto d’aria per asciugare.

Se sbagli la messa a punto, sono dolori. O l’acqua è bollente (con quel che ne segue) o è troppo fredda (e anche qui…). Resta poi il problema principale: come entrare nella propria stanza. Da qualche anno a questa parte, nell’hotel di Yoccaichi che ospita la truppa europea, sono intervenuti dei miglioramenti tecnologici. Una volta giunti alla reception, espletate le formalità di rito, passaporto, numero di prenotazione, verifica del pass FIA e della foto, pagamento (meglio se in contanti ma di solito è anticipato con bonifico bancario) la gentile addetta consegna con le due mani giunte, come da tradizione (consegnare un biglietto con una sola mano è sintomo di maleducazione nei confronti di chi riceve il tutto) un foglietto stampato su carta termica.

Dopo quattro riunioni, tre assemblee col personale, uno del gruppo dei giornalisti, solitamente il più stressato, recita la formula che risolve il problema: “E va bene, la bottiglia d’acqua (o di vino, è lo stesso, ndr) mettetela pure sul mio conto basta che ce ne andiamo via da qua!”

Entrare in camera: come cercare di forzare il caveau di Fort Knox

E’ il codice di accesso alla camera, una sorta di chiave elettronica a quattro cifre che permette solo al possessore di accedere al loculo tre metri per due citato in precedenza. Sempre la gentile signorina mostra poi, con un campione in scala uno a uno della porta e della serratura, come digitare il codice, quali tasti premere (sono in giapponese, ovviamente…) e provare a girare la maniglia che, se non gira, prevede la ripetizione di tutta l’operazione premendo un altro tasto che annulla quanto fatto in precedenza.

Lo stesso codice serve anche per entrare in albergo, che chiude alle 20:00, per cui è basilare conoscerlo altrimenti si rischia di restare fuori non solo dalla stanza ma anche dall’hotel. Appresi i rudimenti di questa difficile arte tutta nipponica di complicarsi la vita con cose semplici, uno parte e va al lavoro, si sciroppa un’ora di autobus dalla stazione di Yoccaichi fino a Suzuka, un’altra ora per tornare indietro cercando però di risolvere un altro problema tipico del giornalista di F.1: dove andare a mangiare.

Anche cenare non è molto semplice

Di solito si resta al ristorante Campanella di Suzuka, gestito da un italiano e con cucina tricolore di alto livello, anche se per mangiare un piatto di spaghetti, una bistecca, un caffè e magari il dolce, bisogna prima fare un mutuo in banca per pagare il conto.

E qui comincia il difficile: come ordinare da mangiare a un giapponese che non parla inglese o italiano, alla fine, diventa una cosuccia da ragazzi. Il difficile è come dividere la ricevuta del pasto, consumato in gruppo con altri colleghi, in tre o quattro parti uguali, operazione che coinvolge i massimi dirigenti nipponici del ristorante, alle prese con un problema insormontabile: come dividere una bottiglia di vino o d’acqua in due o tre parti? Qui si potrebbe aprire una dotta discussione filosofica sul merito e sul metodo nipponico.

Dopo una mezz'ora di discussioni, urla del brasiliano che deve lavorare, un tedesco arrabbiato che non riesce a prendere sonno, finalmente salta giù dal letto un responsabile dell’albergo che, con fare sdegnato, consegna un nuovo foglietto col codice giusto per entrare in camera


Alla fine, dopo quattro riunioni, tre assemblee col personale, uno del gruppo dei giornalisti, solitamente il più stressato, recita la formula che risolve il problema: “E va bene, la bottiglia d’acqua (o di vino, è lo stesso, ndr) mettetela pure sul mio conto basta che ce ne andiamo via da qua!”. E così, dopo venti minuti di pasto e un’ora e trentacinque di discussioni sul conto, uno si avvia all’esterno, sale al volo sull’ultimo autobus che porta a Yoccaichi e si presenta, dopo la fatidica ora di viaggio (anche se per strada non c’è più nessuno, l’autista mantiene il ritmo basandosi su colonna e traffico virtuale) davanti alla porta dell’albergo.

Ma in albergo ci devi anche rientrare

Breve ricerca del foglietto di carta termica col codice perché la porta, alle 21:00, è ormai chiusa a chiave. Dopo una giornata trascorsa nella tasca del pantalone, il foglietto ha perso buona parte delle proprie caratteristiche dinamiche, per cui alla fine non si legge quasi più niente. Un po’ lo sforzo di immaginazione, un po’ la memoria esercitata, fatto sta che il numero di codice viene finalmente digitato e… non succede niente. Allora si ricomincia la procedura, si ripreme il tasto e… niente neanche stavolta. Che è successo? Tenendo sotto controllo il leggero senso di nervosismo che comincia a serpeggiare, si cerca qualcuno che possa aiutarti.

Nella fattispecie un giornalista brasiliano alla ricerca di un telefono funzionante per dettare il pezzo alla redazione di San Paolo. Aperta la porta di ingresso in qualche modo, il malcapitato, ringraziando il collega brasiliano, sempre disperato alla ricerca di un telefono per le chiamate intercontinentali, si avvia alla propria camera, digita il codice e, indovinato, non succede niente neanche stavolta.

Il codice per la stanza viene cambiato tutti i giorni! E visto che gli orari di lavoro sono quelli che sono, il rischio di restare fuori è molto alto. Con un abile colpo di mano tutta la truppa di giornalisti stranieri riesce a fare quello che frotte di nipponici non sono mai riusciti a fare: per i quattro giorni del Gran Premio, il codice non verrà più cambiato


Dopo una mezz'ora di discussioni, urla del brasiliano che deve lavorare, un tedesco arrabbiato che non riesce a prendere sonno, finalmente salta giù dal letto un responsabile dell’albergo che, con fare sdegnato, consegna un nuovo foglietto col codice giusto per entrare in camera. Naturalmente non parla inglese e per il telefono al brasiliano, la tisana al tedesco e la porta per l’italiano, ormai non ha capito più nulla. Riesce però a dare un ultimo segnale facendo capire che l’indomani la situazione potrebbe ripetersi.

Mantenere il codice per entrare in stanza? Urge un "colpo di Stato"

Eh sì, perché il codice per la stanza viene cambiato tutti i giorni! E visto che gli orari di lavoro sono quelli che sono, il rischio di restare fuori è molto alto. Con un abile colpo di mano tutta la truppa di giornalisti stranieri riesce a fare quello che frotte di nipponici non sono mai riusciti a fare: per i quattro giorni del Gran Premio, il codice non verrà più cambiato.

Soddisfatti per l’esito del golpe internazionale, finalmente si va a dormire quando alle tre di notte squilla il telefono: “Olà, aqui o Folha de Sao Paulo, Livio por favor o servicio!”. Tramortiti dal fuso, dal sonno e dalla stanchezza, si risponde in malo modo al centralinista brasiliano. Si riattacca il telefono quando pochi minuti dopo si sente squillare nella stanza adiacente e qualcuno, in tedesco stavolta, sbraita che c’è stato un errore.

Altri minuti e la stanza dopo viene impreziosita da un telefono che squilla. Proteste e via di questo passo, quando finalmente alle quattro e dodici del mattino, dall’ultima stanza sul corridoio, si sente il giornalista brasiliano urlare per diverse volte di fila, l’attacco del pezzo. “O piloto Felipe Massa da equipo Ferrari ganò a vuelta mas rapida…”. Alle cinque e trentasette finalmente il pezzo è stato dettato, il sonno è svanito e ricomincia un’altra giornata di lavoro…

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