Ballestrieri: «Pilotare la moto mi ha fatto andare più forte in auto»

Ballestrieri: «Pilotare la moto mi ha fatto andare più forte in auto»
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  • di Claudio Pavanello
Abbiamo intervistato Amilcare Ballestrieri, pilota classe 1935, che ci ha parlato della sua capacità di essere grande sia in moto che in auto oltre che di un'epoca motoristica leggendaria
  • di Claudio Pavanello
16 dicembre 2012

Renzo Pasolini, Giacomo Agostini, Lancia Stratos, Alfetta GTV, Carlo Chiti, Walter Rohrl….parlare con Amilcare Ballestrieri è un tuffarsi nel passato del motorismo sportivo. Il funambolico pilota di Sanremo, classe 1935, è stato una figura di grande spicco nel panorama rallystico degli anni ’70, pilota ufficiale di Lancia, Alfa Romeo ed Opel.

Ma prima di diventare il re dei traversi, adorato dal pubblico delle prove speciali per la guida sempre al limite, Ballestrieri era stato motociclista di valore assoluto, vincitore di titoli italiani e temibile avversario di piloti del calibro di Agostini, Pasolini, Villa e Bergamonti.

Assieme proprio ad Agostini e Tino Brambilla (e in misura minore al fratello Vittorio Brambilla), Balestrieri rappresenta l’ultima generazione di piloti italiani, dopo i colleghi anteguerra Nuvolari, Varzi, Bordino, Taruffi e Fagioli, ad avere corso da professionisti e con continuità sia su auto che motociclette.

Ascoltandolo, si viene catapultati in un film a cavallo tra il bianco e nero ed il primo colore sfocato, dove il mestiere del pilota e l’ambiente che lo circondava erano sicuramente primitivi rispetto ad oggi, ma tremendamente cavallereschi ed affascinanti. Con lui iniziamo a parlare di due ruote e del clamoroso abbandono nel ’67 ad Assen, quando si rifiutò di salire sulla sua Benelli 250 quattro cilindri ufficiale.

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«Oggi sento critiche a Valentino Rossi che al tempo si facevano ad Agostini, ovvero di avere vinto tanto grazie a mezzi superiori»

 

«Nonostante avessi appena vinto a Vallelunga, la Benelli decise di dare solo a Pasolini il nuovo motore a quattro valvole, molto più prestazionale. Ne parlai con il patron Paolo Benelli, il quale mi disse senza mezzi termini che si era deciso Pasolini sarebbe stato il pilota di punta della squadra; fu una situazione che mi apparve ingiustificata e che mi ferì molto e quindi, siccome non ho un carattere da mezze misure, decisi di piantare tutto all’istante!»

Amilcare, come mai questo trattamento da secondo pilota da parte di Benelli?

«Io avevo vinto molte gare e quattro titoli italiani, due in pista e due in salita, con MotoBi, azienda fondata nel 1950 da Giuseppe Benelli in seguito a dissapori con il cugino. Sebbene dal ’62 le aziende, pur mantenendo marchi distinti, si riunificarono, continuavano ad esistere ruggini, faide e fazioni, e la componente MotoBi veniva discriminata; questo accadde anche tra i due piloti: la moto buona veniva data all’uomo scelto da Benelli e non a quello storico MotoBi. Tengo a precisare che con Pasolini, con cui condividevo anche la camera durante le trasferte, c’erano ottimi rapporti e non fu certo lui a pretendere il mezzo più performante; anzi, ne era rammaricato e mi invitò ad avere pazienza, dicendomi che il quattro valvole sarebbe prima o poi stato sicuramente montato anche sulla mia moto.  Marco Benelli, patron MotoBi, era ugualmente molto dispiaciuto di questa situazione, ma non poteva fare nulla, ed anzi mi confortò nella scelta di ritirarmi, perché temeva che correndo in quelle condizioni di spirito mi sarei fatto male. Purtroppo allora  il motociclismo era veramente pericoloso, ed i lutti non si contavano»

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Agostini era pignolo all’esasperazione, per fare un esempio era un maestro nel rapportare il cambio, e questo perfezionismo nel set-up gli consentiva spesso di battere piloti magari più talentuosi  ma meno intelligenti tecnicamente e tatticamente

 

Rimangono epici certi tuoi duelli con Agostini. Cosa ricordi di lui?
«Mi ricordo la prima volta che lo incontrai ad una gara in salita. Arrivò questo che oggi si chiamerebbe “fighetto” su di una Giulietta fiammante con a carrello una Morini Settebello nuovissima. Pensai ad uno di quei figli di papà che di solito prendevano vari minuti, invece arrivò terzo alle mie spalle; io conoscevo il percorso a menadito, mentre lui aveva provato poco, e questo mi impressionò»

C’è sempre stata una certa sottovalutazione dei tanti titoli mondiali vinti da Agostini: tu che ne pensi?
«Oggi sento critiche a Valentino Rossi che al tempo si facevano ad Agostini, ovvero di avere vinto tanto grazie a mezzi superiori. Io penso che intanto se hai la moto migliore è perché te la sei guadagnata. Ago, per chiarirci sul suo coraggio, ha vinto dieci Tourist Trophy, che erano un vero inferno. Se poi mi chiedi se era il più veloce, ti dico che Hailwood secondo me lo era di più; ma l’inglese guidava sempre al massimo, d’istinto, senza curarsi della messa a punto. Agostini era pignolo all’esasperazione, per fare un esempio era un maestro nel rapportare il cambio, e questo perfezionismo nel set-up gli consentiva spesso di battere piloti magari più talentuosi  ma meno intelligenti tecnicamente e tatticamente»

Il passaggio ai Rally come avvenne?
«Io sono di Sanremo, dove il rally era nel cuore di tutti i giovani. Già mentre correvo in moto ebbi modo di conoscere Cesare Fiorio, Direttore Sportivo Lancia, che mi aveva lasciato in uso una Fulvia HF con cui mi divertivo ed ottenevo dei buoni risultati nelle gare locali. Ma onestamente non mi piaceva la trazione anteriore e mi comprai una Renault 8 Gordini. Tra gli amici concittadini c’era Daniele Audetto, che allora gestiva un bar gelateria (ndr: Audetto diventerà in futuro un personaggio di primo piano, occupando tra l’altro la carica di direttore sportivo Ferrari ai tempi di Lauda):mi convinse ad iscrivermi al Rally dell’Isola d’Elba, con lui come navigatore. Allora l’Elba era un rally molto importante, con lo squadrone Lancia al completo. Per farla breve, arrivammo secondi assoluti dietro solo la HF ufficiale di Cavallari. Fu un risultato clamoroso»

Daniele Audetto mi convinse ad iscrivermi al Rally dell’Isola d’Elba, con lui come navigatore. Allora era un rally molto importante, con lo squadrone Lancia al completo. Arrivammo secondi assoluti solo dietro alla HF ufficiale di Cavallari. Fu un risultato clamorosoi


La grande esperienza con le moto ti fu utile per correre in auto?
«Fu importante perché avevo già la mentalità del professionista nell’affrontare le gare e tutto il loro contorno; inoltre a correre con le moto avevo sviluppato un certo coraggio, o incoscienza che dir si voglia, che mi aiutò molto quando si trattava di tenere giù il piede sulle strade che costeggiavano gli strapiombi. Però mi mancava la tecnica di chi inizia con le quattro ruote, che compensavo con una guida talvolta troppo sporca. In generale, passare dalla pista ai rally non è facile, vedi Raikkonen»

Come entrasti nello squadrone Lancia?
«In maniera tragica purtroppo. Non appena sbarcai dalla nave che mi riportava dall’Elba fui informato della morte di Leo Cella a Balocco durante dei test con l’Alfa 33. Cella, mio concittadino, era un pilota straordinario, che aveva vinto più volte il Sanremo come ufficiale Lancia  ed aveva ottenuto grandi risultati internazionali in pista con Porsche ed Alfa. Ma soprattutto era un grandissimo amico ed il mio punto di riferimento, tanto che gli chiesi di essere il padrino di mio figlio. Proprio prima di andare all’Elba ero stato a trovarlo per farmi dare dei suggerimenti. Al termine del suo funerale mi avvicinò Fiorio e mi offrì di prendere il suo posto nel team Lancia: mi imposi che avrei fatto del mio meglio per onorarne la memoria»

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Secondo me l’essenza dei rally sono i traversi. Con la Fulvia vinsi tanto, le affermazioni più belle furono il Sanremo ’72 ed il Campionato Italiano rally 1973

 

Così fosti “costretto” a risalire sulla Fulvia…
«Secondo me l’essenza dei rally sono i traversi. Con la Fulvia vinsi tanto, le affermazioni più belle furono il Sanremo ’72 ed il Campionato Italiano rally 1973, ma era una vettura che poco si addiceva al mio stile. I freni a mano di una volta non erano quelli di oggi, non ti consentivano di intraversare la vettura: per farlo dovevo lavorare tanto con il piede sinistro, modulando il freno con l’acceleratore ancora premuto per trasferire il carico sull’anteriore e alleggerirla dietro. Una fatica bestiale, anche perché la Fulvia era durissima di sterzo»

Tu fosti a lungo in squadra con il mitico “Drago” Munari: era più forte di te?
«Si. I tempi sulle speciali erano simili, ma devo ammettere che  lui era un pilota più completo, più affidabile, più tecnico. I tifosi si divertivano sicuramente di più al mio passaggio, ma questa guida irruenta era anche il mio limite, in quanto ero più soggetto a rotture. Devo dire a tale proposito che guardo  alle vetture di oggi con invidia: prendono grandi botte, ma in qualche maniera arrivano sempre in assistenza, dove si smontano e rimontano come dei Lego. Le nostre macchine erano fragili e se rompevi un semiasse della Fulvia ci volevano tre ore per cambiarlo! Munari comunque era un grande amico, e ci scambiavamo senza problemi le reciproche esperienze nei collaudi: questo ci consentiva un vantaggio sui piloti Lancia stranieri, con cui per ragioni di lingua non poteva esserci lo stesso rapporto»

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La Lancia Stratos era una macchina strepitosa, un vero prototipo. La prima versione era molto nervosa, ma dava delle soddisfazioni enormi, si guidava tutta di acceleratore, aveva un bel motore, e si intraversava solo a pensarlo

 

Poi nel ’74 arrivò la Stratos…
«Si, con la quale assieme a Larrousse vinsi tra l’altro la Targa Florio. Una macchina strepitosa. Era un vero prototipo, anche nel senso che specie nei primi esemplari poteva succedere di tutto, ad esempio ricordo mi volò via una volta l’intera carrozzeria posteriore. La prima versione era molto nervosa, ma dava delle soddisfazioni enormi, si guidava tutta di acceleratore, aveva un bel motore, e si intraversava solo a pensarlo»

Nel ’75, improvviso  il passaggio all’Alfa Romeo…
«Mi contattò Carlo Chiti, il carismatico capo dell’Autodelta, reparto sportivo dell’Alfa. Mi disse che la Casa di Arese aveva deciso che si dovevano assolutamente fare i rally, che allora, bisogna ricordare, attiravano tantissime persone ed avevano enorme risonanza e riscontro sulle vendite, e che io ero il pilota giusto per loro. Nei loro progetti l’Alfetta GTV avrebbe dovuto presto avere il motore V8 e diventare l’anti Stratos.  Andruet, il fortissimo francese che aveva già firmato con loro, saputo della trattativa, mi telefonò e mi suggerì di chiedere come lui “un sacco di soldi”. Come ufficiale Lancia già guadagnavo bene; all’Alfa sparai una richiesta di più del triplo: accettarono senza battere ciglio, anche allora le aziende statali (l’Alfa era dell’IRI) evidentemente non badavano molto a spese.  Prima di accettare volli parlare con Fiorio, che trasecolò quando seppe l’ingaggio. Dopo avermi detto scherzosamente di chiedere all’Alfa se avevano bisogno anche di un direttore sportivo, mi domandò solo di correre il successivo Montecarlo con la Stratos»

Quindi salisti sull’Alfetta GTV gruppo 2…
«Ebbi la soddisfazione di vincere all’esordio l’Elba, ma fu un fuoco di paglia. L’Alfetta era divertente, ma mancava di cavalli. Ricordo che un giorno assieme all’amico Pregliasco, che guidava la Beta Coupè  ufficiale, ci affiancammo e facemmo una gara di accelerazione. La Beta aveva molto più motore. Raccontai la cosa a Chiti che mi mangiò vivo, dicendo che ai piloti avversari non bisognava rivelare le proprie forze, che ero un irresponsabile»

Nonostante il ponte rigido, la GTE era una bella vettura, solida e divertente, che fece da nave scuola a tanti giovani piloti


Insomma, con Chiti non fu un rapporto semplice…
«Non lo fu. Io avevo l’impressione che a lui interessasse solo la pista ed in particolare la Formula 1, dove l’Autodelta si stava preparando a fornire i propulsori alla Brabham, e che fosse stato costretto a fare i rally di malavoglia.  Tra l’altro c’erano due motori per l’Alfetta, uno realizzato dall’Alfa Romeo a Milano ed uno dall’Autodelta; il primo  era più potente e raffinato, ma mi obbligavano a correre con il secondo. Verso fine stagione arrivò finalmente il propulsore V8: dal trapianto venne fuori una macchina potentissima, ma purtroppo, non avendo provveduto a modificare il cambio, andava guidata praticamente solo in prima e seconda! Durante  i test ci accorgemmo che i semiassi saltavano in continuazione. Dissi a Chiti che sarebbe stato un suicidio andare in gara così impreparati. “Lei pensi a guidare” mi disse. Infatti dopo poche speciali del rally di Piacenza ero fermo. A fine 1975 l’Alfa decise di interrompere il programma rally, nonostante io e Andruet avessimo un biennale. Pensavo di stare fermo,  quando mi chiamò la General Motors Italia per fare l’italiano con la Kadett GTE»

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Il nostro era uno sport diverso rispetto ai rally di oggi, ovviamente anche in conseguenza del periodo  storico . Ai miei tempi eravamo tutti una famiglia, e non è un modo di dire. Anzi, più che famiglia parlerei di cameratismo, perché per certi versi eravamo come militari al fronte

 

Come andò?
«Nonostante il ponte rigido, la GTE era una bella vettura, solida e divertente, che fece da nave scuola a tanti giovani piloti. Quelle della Opel Italia le preparava Conrero e spesso erano più veloci di quelle tedesche della Casa madre. Walter Rohrl, che detto per inciso considero tra i più grandi rallysti di tutti i tempi, imbattibile nei tratti in discesa, veniva spesso a farmi i complimenti per come era a posto la nostra macchina. Alla Opel erano contentissimi dei miei risultati, perché eravamo sempre i più veloci tra le macchine “normali”, cito ad esempio un quinto posto assoluto sulle strade di casa del Sanremo . Però alla fine non potevamo onestamente competere per la vittoria contro le Stratos e le 131 Abarth, quindi a fine ‘77 decisi di chiudere la mia carriera. Avevo 42 anni, grazie al cielo ero fisicamente integro nonostante una lunga carriera alla spalle e mi sentivo appagato»

Tu frequenti ancora molto i rally. Che differenza vedi rispetto ai tuoi tempi?
«Il nostro era uno sport diverso rispetto ai rally di oggi, ovviamente anche in conseguenza del periodo  storico . Ai miei tempi eravamo tutti una famiglia, e non è un modo di dire. Anzi, più che famiglia parlerei di cameratismo, perché per certi versi eravamo come militari al fronte, combattevamo tante battaglie in terre straniere, si stava via settimane intere in posti allora sperduti, e purtroppo avevamo con una certa frequenza anche dei caduti. Per questo spesso eravamo anche l’uno testimone di nozze o padrino del figlio dell’altro: al di la della differenza di scuderie, vivevamo una vera avventura comune. Per fare un esempio, ricordo una volta in cui la Fulvia ci tradì alle tre di notte in uno sperduto posto della Corsica durante delle ricognizioni. Allora non c’erano cellulari, radio o soccorsi stradali, al Safari è successo a dei colleghi di stare due giorni chiusi in macchina con i leoni attorno. Dopo un po’ arriva la Ford ufficiale di Piot-Todt; trovammo una corda e ci trainarono per tutta la notte fino ad Ajaccio, lungo mulattiere e sterrati, rinunciando a fare le loro ricognizioni. Oggi è naturalmente tutto diverso; sono un po’ preoccupato che rispetto ai miei tempi, mentre tutte le altre specialità sono diventate più sicure, i rally continuano ad essere oggettivamente pericolosi e quindi sono sempre più invisi alle autorità. Poi i costi di noleggio sono diventati esagerati, e questo, complice la crisi, tende a spopolarli»

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