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Il commissario ai Trasporti, Apostolos Tzitzikostas, lo ha anticipato in un’intervista alla tedesca Handelsblatt: la Commissione non riuscirà a presentare le misure nei tempi annunciati. "Servono ancora alcune settimane", ha detto. E non è escluso che lo slittamento si prolunghi fino a gennaio, come confermano anche fonti interne raccolte da altri quotidiani europei.
La sensazione è chiara: il dossier è troppo complesso, troppo politicamente sensibile e troppo carico di pressioni contrapposte per arrivare a una decisione in pochi giorni.
Il rinvio dell’“Automotive Package” nasce da una somma di fattori: la Commissione rivendica la necessità di preparare un intervento “completo”, capace di coprire tutte le tecnologie utili alla decarbonizzazione. Allo stesso tempo, le cancellerie nazionali non avrebbero ancora inviato tutti i contributi richiesti: un segnale eloquente delle divisioni interne all’Unione.
Nell’agenda ufficiale non compare alcun appuntamento dedicato all’auto fino all’11 dicembre, nonostante la data del 10 fosse stata confermata pubblicamente anche da diversi commissari e dal ministro italiano Adolfo Urso. Volkswagen e Stellantis hanno rinviato proprio in attesa delle decisioni europee i loro piani industriali, a testimonianza del peso economico che il pacchetto ha per il settore.
Secondo Tzitzikostas, il nuovo impianto regolatorio sarà "aperto a tutte le tecnologie", comprese quelle sostenute da Italia e Germania: biocarburanti avanzati, carburanti a basse o zero emissioni e, soprattutto, possibili deroghe per le ibride plug-in oltre il 2035. Ed è significativo che queste dichiarazioni arrivino proprio sulla stampa tedesca, in un momento in cui Berlino sta intensificando il pressing su Bruxelles.
Anche il fronte industriale appare spaccato. La filiera tedesca, ancora fortemente dipendente dal motore a combustione, spinge per rivedere scadenze e obiettivi, sostenuta apertamente dal cancelliere Friedrich Merz. Dall’altra parte, costruttori come Kia e gruppi che hanno già investito massicciamente sull’elettrico non vogliono riscrivere la roadmap a meno di dieci anni dalla scadenza del 2035: troppo poco tempo per riadattare strategie e investimenti.
Germania e Italia chiedono maggiore flessibilità, mentre Francia e Spagna hanno finora difeso lo stop al termico. Ma anche Parigi sembra riconsiderare la propria posizione: un recente comunicato del ministero dei Trasporti francese parla di apertura a “flessibilità tecnologiche”, purché accompagnate da strumenti industriali e finanziari adeguati. Una formula volutamente ambigua, che molti hanno letto come un possibile ammorbidimento della linea dura.
Nel caos di dichiarazioni, pressioni, lettere ufficiali e prese di posizione, emerge un dato politico evidente: Bruxelles fatica a trovare un compromesso credibile. E la debolezza della presidente Ursula von der Leyen – schiacciata tra governi nazionali, partiti europei e un settore che chiede una correzione di rotta – non aiuta.
Dal settore arrivano ora segnali sempre più espliciti. La direttrice generale dell’Acea, Sigrid de Vries, non parla di retromarcia sull’elettrico - "la risposta è un semplice ‘no’, l’elettrificazione guiderà la mobilità del futuro" – ma mette in chiaro che gli obiettivi di CO₂ per il 2030 e il 2035 non sono più realistici.
I motivi sono noti: un mercato debole, una rete di ricarica insufficiente, incentivi inadeguati e un contesto geopolitico ed economico in rapido cambiamento. La filiera non chiede quindi di abbandonare la transizione, ma di adottare un approccio più flessibile e pragmatico, che tenga conto delle differenze tra segmenti (auto, furgoni, camion), tra mercati e tra livelli di competitività industriale.
A farsi sentire è anche l’Anfia, attraverso il presidente Roberto Vavassori: oltre 100.000 posti di lavoro persi nel 2024 e altri 400.000 a rischio entro il 2028 sono un segnale che l’Europa, dice, non può ignorare. L’Italia spinge affinché il pacchetto riconosca il ruolo dei carburanti rinnovabili, delle ibride plug-in e delle tecnologie locali, chiedendo una revisione dei target 2025-2027 e del traguardo 2030, già oggi considerato fuori portata.
Per Vavassori, servono inoltre strumenti di tutela del “Made in Europe”, come un contenuto minimo obbligatorio di componentistica locale per i veicoli venduti nell’Unione. E un grande piano decennale per accelerare il ricambio del parco circolante, premiando i veicoli a basse emissioni e la produzione europea.
Secondo quanto riportato dalla stampa francese, lo stallo rischia di trascinarsi ancora. L’ipotesi gennaio è sempre più probabile, ma altri osservatori non escludono un rinvio ancora più lungo. "Forse la risposta arriverà nel 2026", commentano amaramente alcuni addetti ai lavori citati da L’Automobile Magazine.
Non è solo una questione di obiettivi climatici. In gioco ci sono migliaia di posti di lavoro, la competitività industriale europea e una transizione che, per quanto inevitabile, non appare più così lineare come pensato qualche anno fa.
In questo scenario, la Commissione cammina su un crinale difficilissimo: se allenta troppo il Green Deal rischia di perdere credibilità; se non apre a una maggiore flessibilità rischia una crisi industriale e sociale. E ogni giorno che passa rende il compromesso più difficile.