Gruppo Ford senza brand premium

Gruppo Ford senza brand premium
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Con la vendita di Jaguar, Land Rover e Volvo si chiude un ciclo
5 gennaio 2009
A volte anche i top manager con stipendi a sei zeri riescono a combinare disastri al limite del surreale e osservando la situazione dalla giusta prospettiva sembra evidente che la crisi dei grandi costruttori americani sia figlia più di una serie di scellerate decisioni strategiche piuttosto che della crisi del mercato.
Il cado di Ford, in questo senso, è emblematico, e poco importa se al momento la casa dell'Ovale Blu vanta una situazione meno drammatica rispetto a GM e Chrysler. Basti pensare a come Ford ha (mal) gestito la propria presenza nei segmenti premium del mercato, ovvero in quella fascia elitaria che negli ultimi anni hanno registrato profitti elevatissimi.

BMW fino a sei mesi fa vantava una redditività da record e Porsche è riuscita addirittura a conquistare la maggioranza del Gruppo Volkswagen vendendo solo 100 mila auto l'anno, e pure Mercedes ha visto offuscati i propri bilanci solo dalle difficoltà di Smart e di Chrysler (fino alla cessione di quest'ultima).

Un mercato ricchissimo, quindi, nel quale Ford poteva vantare almeno sulla carta una posizione di forza: un marchio prestigioso come Jaguar che poteva fare concorrenza in modo trasversale a Porsche, BMW, Mercedes, Audi e Lexus, puntando su un mix di sportività ed eleganza; Land Rover per cavalcare il fenomeno dei SUV; Volvo per la clientela alla ricerca di prodotti di qualità ma senza ostentazioni; infine Aston Martin per sedurre la clientela più elitaria, quella per la quale il fattore prezzo è del tutto secondario.

Un mix sulla carta vincente, anche per le sinergie che potevano essere applicate, che tuttavia è andato in gran parte sprecato: Aston Martin è stata effettivamente sostenuta con efficacia, ma solo per essere venduta per fare cassa, rendendo di fatto nulli gli investimenti compiuti negli anni passati per riportarla all'antico splendore.

Investimenti che sono invece tragicamente venuti meno con Jaguar, che rispetto ai principali competitors vanta una gamma troppo ristretta, con pochi modelli gestiti male (il caso X-Type insegna) oppure appesantiti da linee superate (XJ), che sembravano rivolgersi esclusivamente ai (pochi) clienti rimasti piuttosto che andare alla conquista di nuovi acquirenti. Certo, l'XK è una coupè di rara eleganza, ma da sola non basta, e l'XF è arrivata troppo tardi. Anche soluzioni tecnologiche evolute con il telaio in alluminio, da sole, non possono bastare a conquistare una clientela sempre più alla ricerca dell'ultima novità, ed ecco spiegato il rosso di Jaguar e la decisione di cedere un marchio di grande prestigio, che se gestito diversamente avrebbe potuto garantire utili importanti alla casa madre. Una cessione completata da quella di Land Rover, anch'esso acquistato da Tata, unico marchio in grado di contrastare i costruttori tedeschi nei SUV di fascia alta.

Un discorso analogo a Jaguar, per molti versi, può essere fatto per Volvo, anch'essa con una gamma troppo ristretta e per certi versi antiquata - più nello stile che nei contenuti tecnici - per competere con BMW e Mercedes. Proprio il destino di Volvo, ancora da scrivere, appare particolarmente triste, perchè si tratta di un marchio di grande reputazione, che vanta un know how eccezionale sul fronte della sicurezza e una presenza sui mercati di tutto il mondo, eppure ora nessun costruttore sembra seriamente volersi fare avanti, dato il contesto generale di fiducia: chi avrà il coraggio di farlo sicuramente farà un affare, a patto però di investire quelle risorse che Ford non ha mai voluto mettere a disposizione e senza le quali quello che poteva essere un polo "premium" vincente si è rivelato solo una grande occasione mancata e un'emorragia finanziaria.

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