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Le strategie delle grandi aziende cinesi dell'automotive sono cambiate radicalmente. Se fino a qualche anno fa il loro obiettivo era quello di produrre in patria veicoli elettrici (Ev) da spedire nei mercati occidentali, le tensioni geopolitiche esplose tra Pechino e Washington, e i conseguenti dazi decisi prima dagli Stati Uniti e poi dall'Unione europea sui mezzi green Made in China, hanno gradualmente spinto il Dragone a modificare radicalmente il proprio modus operandi.
Per bypassare le tariffe occidentali, o comunque limitare al massimo il loro effetto sui conti, le case automobilistiche della Cina hanno adottato due mosse: costruire stabilimenti oltre la Muraglia, e cioè in Paesi terzi nei quali produrre Ev da esportare in un secondo momento verso Usa e Ue, oppure puntare su altre destinazioni. Per quanto riguarda il primo punto, l'esempio più emblematico chiama in causa BYD.
Come abbiamo spiegato nel dettaglio, il gigante di Shenzhen sta inviando verso l'Europa, o meglio Germania, Belgio e Regno Unito, oltre 900 BYD Dolphin Surf costruite nello stabilimento di Rayong, in Thailandia, in un impianto inaugurato nel 2024 e in grado di sfornare 150.000 veicoli all'anno. Ma questa è soltanto la punta dell'iceberg.
Basta seguire il flusso di denaro che si snoda dalla Cina continentale, coinvolge le case automobilistiche del Dragone e arriva in Paesi terzi per costruire la nuova ragnatela commerciale anti dazi di Pechino. Non è un caso che, per la prima volta dal 2014, l'industria degli Ev cinese abbia investito più nelle fabbriche all'estero che in quelle nazionali.
L'ultimo rapporto stilato dal think tank Rhodium Group parla chiaro: la maggior parte degli investimenti esteri annunciati, ovvero il 74%, è stata destinata alle “fabbriche di batterie”, ma risultano in crescita anche le risorse allocate negli “impianti di assemblaggio” degli stessi veicoli. Che cosa sta succedendo? Semplice: questi piani di spesa arrivano in un momento in cui le case automobilistiche cinesi si trovano ad affrontare una forte concorrenza interna e tariffe più elevate sull'export.
Incrementare gli investimenti all'estero può aiutarle a ottenere il sostegno dei governi stranieri per l'espansione del mercato e a contenere l'effetto dei dazi. In vista del futuro, si legge ancora nel paper di Rhodium, la crescente resistenza normativa nei mercati ospitanti come l'Ue “spingerà un numero sempre maggiore di aziende cinesi a stabilire attività di produzione locali”, creando quindi una concorrenza interna ai marchi occidentali.
Gli investimenti in patria dell'industria manifatturiera cinese degli Ev sono passati dai 41 miliardi di dollari nel 2023 ai 15 miliardi del 2024, dopo il picco di oltre 90 miliardi nel 2022. Nel secondo trimestre del 2025 il settore dell'automotive è stato il secondo più attivo per gli investimenti di Pechino in uscita. Sono state registrate otto transazioni dal valore superiore ai 100 milioni di dollari ciascuna.
La più rilevante chiama in causa i 293 milioni spesi da GEM, un produttore cinese di materiali per batterie, che ha allargato il proprio stabilimento di precursori ternari in Indonesia. Great Wall Motor ha invece annunciato l'apertura del suo primo stabilimento in Brasile, con il chiaro intento di entrare a gamba tesa nel mercato locale (già appannaggio di BYD, che vanta pure uno stabilimento), e da lì scalare quello dell'intera America Latina.
Da segnalare inoltre il fornitore cinese di batterie Envision che a giugno ha avviato ufficialmente la produzione nel suo primo stabilimento in Francia. Certo, le aziende cinesi dovranno imparare a gestire sempre di più la crescente preoccupazione di Pechino per la fuga di tecnologia, la perdita di posti di lavoro e lo svuotamento industriale, tutti aspetti che potrebbero spingere il Partito Comunista Cinese ad attuare controlli più severi sugli investimenti in uscita nei settori strategici come quello dell'automotive.