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Ogni grammo di CO₂ è tracciato, ogni modello è costretto a rispettare limiti precisi di efficienza. Ma lontano dalle strade, nei capannoni climatizzati che ospitano i data center dell’intelligenza artificiale, si consuma un’altra forma di inquinamento: invisibile, silenziosa e oggi quasi ignorata.
Secondo uno studio della Cornell University, pubblicato su Nature Sustainability, entro il 2030 i data center dedicati all’IA potrebbero generare tra 24 e 44 milioni di tonnellate di CO₂ all’anno. In termini concreti, significa l’equivalente di 10 milioni di automobili americane in circolazione. Un dato che non solo sorprende, ma impone una riflessione: mentre il mondo della mobilità affronta una transizione ecologica faticosa e costosa, la nuova rivoluzione digitale rischia di bruciare i suoi benefici climatici prima ancora di cominciare.
Nel 2024, secondo i dati dell’OICA (Organisation Internationale des Constructeurs d’Automobiles), sono state vendute nel mondo circa 74,6 milioni di auto. Ora, rapportando i dati dello studio Cornell, emerge che le emissioni previste per l’intelligenza artificiale nel 2030 — quelle 24-44 milioni di tonnellate di CO₂ — rappresenteranno circa il 13-14% delle emissioni complessive annuali delle automobili vendute in un intero anno nel mondo.
In altre parole: il “cervello digitale” che risponde ai nostri prompt e alimenta i chatbot potrebbe, da solo, inquinare quanto oltre un decimo del parco auto mondiale annualmente rinnovato. E lo farà senza ruote, senza scarichi, ma anche senza regolamentazioni.
Ogni volta che chiediamo qualcosa a un assistente virtuale, che generiamo un’immagine o chiediamo un riassunto a un algoritmo, decine di server si attivano in giganteschi data center, grandi come hangar. Questi impianti non solo richiedono enormi quantità di elettricità, ma anche acqua per il raffreddamento dei sistemi e, secondo la Cornell, entro il 2030 l’IA consumerà ogni anno un miliardo di metri cubi d’acqua (quanto serve a 10 milioni di cittadini americani, che di acqua ne consumano abbastanza rispetto agli abitanti del Vecchio Continente).
E non si tratta solo di spreco idrico: l’energia necessaria per alimentare questi centri di calcolo, spesso proveniente ancora da fonti fossili, è la principale causa delle emissioni climalteranti associate all’IA. La crescita esponenziale del numero di server, alimentata dal boom dei modelli generativi, sta trasformando un settore considerato “immateriale” in una nuova industria energivora, paragonabile per impatto a quella automobilistica di vent’anni fa.
È qui che nasce il paradosso: da un lato, il settore automobilistico è tra i più regolamentati al mondo. Ogni costruttore è obbligato a rispettare obiettivi di flotta fissati dalla Commissione Europea, a ridurre progressivamente le emissioni medie e a investire miliardi nella transizione verso l’elettrico. Ogni nuova omologazione richiede anni di test, certificazioni e controlli (ed enormi costi da parte dei produttori).
Dall’altro, il mondo dei data center — che ormai rappresenta oltre il 2% del consumo energetico globale — non è soggetto a nessuna norma vincolante sulle emissioni. Non esiste una direttiva che imponga limiti alla CO₂ digitale, né una tassa proporzionata ai consumi. Un vuoto normativo che diventa ancora più evidente se si considera la velocità di crescita del settore: secondo stime dell’International Energy Agency, entro il 2030 l’IA potrebbe assorbire fino al 4% dell’elettricità mondiale.
E in alcuni Paesi, come l’Irlanda, la situazione è già insostenibile: Dublino ha introdotto una moratoria sulle nuove installazioni di data center, perché rischiano di mettere in crisi la rete elettrica nazionale.
C’è un’evidente asimmetria nel modo in cui si misura la sostenibilità dei due mondi: le case automobilistiche sono obbligate a calcolare il ciclo di vita completo delle vetture, dalle emissioni di produzione fino al riciclo delle batterie. Nel frattempo, le grandi aziende tech raramente pubblicano dati trasparenti sui consumi reali dei loro data center o sulle fonti energetiche utilizzate.
Eppure, proprio l’auto — il simbolo più evidente dell’inquinamento urbano — è oggi una delle industrie più efficienti e controllate dal punto di vista ambientale. Ogni nuova tecnologia introdotta, dai motori ibridi ai sistemi di recupero dell’energia, è il risultato di anni di ricerca e investimenti imposti da normative sempre più severe. Nessuna di queste regole, però, sembra valere per i colossi digitali.
Gli studiosi parlano ormai apertamente di “digital pollution”, l’inquinamento invisibile generato da internet, streaming, cloud e intelligenza artificiale. Ma manca un quadro normativo globale: non esiste un “Euro 7” dei data center, né un limite di consumo per petabyte calcolato, come avviene per i grammi di CO₂ per chilometro delle auto. Eppure, la direzione è chiara: ogni domanda a un’intelligenza artificiale comporta un consumo energetico paragonabile a quello di far bollire un litro d’acqua. Un gesto minimo, moltiplicato per miliardi di richieste al giorno, produce un impatto enorme.
È facile accusare l’auto: è visibile, tangibile, rumorosa. Molto più difficile è percepire l’inquinamento di un algoritmo. Ma le cifre parlano chiaro: se non si interverrà, nel 2030 l’IA inquinerà quanto oltre il 10% del mercato automobilistico mondiale.