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Nel pieno dell’estate, il Ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini ha firmato il decreto attuativo che introduce l’alcolock in Italia: un sistema che impedisce l’accensione dell’auto se il tasso alcolemico del conducente è superiore a zero. Una misura che si inserisce nel più ampio disegno di riforma del Codice della Strada, con l’obiettivo dichiarato di ridurre il numero di incidenti.
Nel frattempo, però, la cronaca racconta un altro tipo di tragedia: sull’A1, un camionista ha travolto e ucciso una famiglia. Pochi minuti prima, aveva pubblicato su YouTube un video girato alla guida, mentre parlava con la fotocamera e sembrava completamente disinteressato a ciò che accadeva davanti a sé.
Non c’era alcol nel suo sangue e nessuna droga, solo - si fa per dire - uno smartphone acceso e un presunto canale social da aggiornare.
La guida in stato di ebbrezza è da anni sotto i riflettori, ma nel frattempo la distrazione da smartphone è diventata la nuova normalità silenziosa del traffico quotidiano. In auto si guarda lo schermo per rispondere a un messaggio, cambiare canzone, registrare una storia su Instagram o semplicemente consultare il navigatore, spesso senza neanche usare un supporto adeguato.
Eppure, nessuno vuole davvero parlarne fino in fondo, forse perché significherebbe ammettere una scomoda verità: la maggior parte degli automobilisti, anche quelli considerati “attenti”, si distrae regolarmente con il cellulare. È un fenomeno trasversale, che riguarda tutte le età, tutte le professioni, tutte le classi sociali. Non c’è stigmatizzazione sociale, come accade invece per chi guida ubriaco. Non c’è indignazione collettiva: c’è tolleranza, abitudine, in fondo persino indulgenza.
E così lo smartphone resta l’elefante nel cruscotto: enorme, visibile, pericoloso, ma invisibile nel dibattito pubblico. Lo si ignora, o lo si liquida con frasi fatte: “Basta non usarlo”. “Serve più educazione”. “Occorrono più controlli”. Ma quanti di quei controlli si fanno davvero? Quanti verbali si elevano ogni giorno per uso scorretto del cellulare alla guida? E soprattutto: quanti incidenti potrebbero essere evitati se lo trattassimo come una vera emergenza, anziché come una cattiva abitudine?
Nel frattempo, il numero di vittime della distrazione continua a salire. Ma finché non c’è sangue in prima pagina, il problema resta confinato nei rapporti ISTAT e nei comunicati stampa delle forze dell’ordine. Ogni tanto ci indigniamo per un video girato al volante. Poi si passa oltre, fino al prossimo caso. E l’elefante resta lì. Nel cruscotto.
Quando si parla di sicurezza stradale, la sensazione è che le priorità siano decise più per comodità politica che per reale incidenza sul rischio. Si interviene con decisione su ciò che è facile da identificare, tecnicamente regolamentabile e - soprattutto - accettabile per l’opinione pubblica. Come l’alcol, un nemico noto, stigmatizzato, facilmente misurabile con un etilometro e già al centro di campagne istituzionali da anni (molte discutibili, soprattutto per l'incompetenza comunicativa di Pubblicità Progresso) . E allora via libera a nuove norme, obblighi, dispositivi e comunicati stampa. Tutto giusto, ma incompleto.
Sullo smartphone, invece, regna una cautela quasi timorosa. Nonostante sia un fattore di rischio primario, trasversale e in crescita costante, manca una strategia sistemica per contrastarne l’uso improprio al volante. Non ci sono dispositivi installabili, niente blocchi elettronici, poche sanzioni davvero dissuasive. E chi dovrebbe far rispettare le regole si trova spesso disarmato, tra mancanza di personale e strumenti inadeguati.
Il risultato? Una sicurezza stradale a geometria variabile, in cui alcune infrazioni vengono punite severamente e altre - seppur potenzialmente mortali - vengono lasciate in secondo piano. È un approccio che rischia di svuotare di senso l’intero impianto normativo, perché trasmette un messaggio chiaro: alcuni comportamenti sono più tollerati di altri, anche se non meno pericolosi.
E mentre la politica si concentra su ciò che è più semplice da normare, le strade italiane continuano a fare da teatro a comportamenti distratti, con conseguenze tragiche. Ogni incidente evitabile è un fallimento di sistema, e ogni priorità sbagliata è una responsabilità condivisa.
L’alcolock è un dispositivo sofisticato e potenzialmente salvavita. Ma come tutte le tecnologie, è anche figlio del suo tempo e del contesto in cui viene implementato. In Italia, quel contesto è un parco circolante che invecchia: oltre il 22% dei veicoli ha più di 19 anni. Molti di questi non sono compatibili con sistemi elettronici moderni, e anche tra quelli più recenti, l’installazione dell’alcolock comporta costi non banali - da 1.500 a 2.000 euro - e una procedura tutt’altro che immediata.
Chi sono, allora, i destinatari reali di questa misura? Una ristretta fascia di utenti obbligati dopo violazioni gravi? O un ipotetico futuro di prevenzione estesa? Per ora, sembra più un obbligo punitivo che una misura sistemica. Il rischio è che questa tecnologia, invece di diventare uno strumento diffuso di sicurezza, rimanga confinata a una nicchia — utile, ma marginale.
E mentre si discute di etilometri smart, l’invasione degli schermi nelle auto continua senza freni. Infotainment sempre più complessi, notifiche che compaiono anche nel quadro strumenti, interfacce che richiedono sguardi e tocchi continui. Eppure, qui non si parla di dispositivi da disattivare, ma da esibire come modernità.
La domanda, allora, diventa inevitabile: stiamo davvero usando la tecnologia per proteggere chi guida? O la stiamo solo rendendo più “connessa”, più costosa, più vendibile? Il confine tra sicurezza e marketing, tra prevenzione e distrazione legalizzata, non è mai stato così sottile.
La tentazione di risolvere problemi complessi con soluzioni tecnologiche è forte. Un dispositivo, una norma, una firma su un decreto: tutto dà l’illusione del controllo. Ma la sicurezza stradale non si costruisce solo con gli strumenti, si costruisce prima di tutto con la consapevolezza. E su questo fronte, l’Italia è ancora in forte ritardo.
Nel nostro Paese, parlare di “distrazione alla guida” evoca ancora immagini vaghe, poco definite. Si parla più volentieri di velocità, alcool, droghe. Ma l’uso del cellulare, il multitasking al volante, il bisogno compulsivo di documentare tutto, anche una corsia di sorpasso, resta un tabù. O peggio: una normalità tollerata.
Una riforma culturale significa riconoscere che guidare è un atto che richiede presenza mentale, concentrazione, responsabilità verso sé e verso gli altri. E significa anche educare alla sicurezza, a partire dalle scuole guida, spesso ridotte a percorsi burocratici, incapaci di trasmettere una reale etica della guida.
È inutile installare alcolock se poi si guarda TikTok a 130 all’ora. È inutile parlare di “zero morti sulle strade” se non si ha il coraggio di affrontare l’invasione delle distrazioni legittimate: dagli schermi agli influencer del traffico. Serve una narrazione nuova, che vada oltre i simboli facili e tocchi il cuore del problema: l’atteggiamento con cui ci si mette alla guida. E di questo, forse, la politica - come spesso accade - non ci ha capito un cazzo.