Mika Hakkinen: «La F1 è un gioco di squadra ed alcuni piloti lo capiscono meglio di altri»

Mika Hakkinen: «La F1 è un gioco di squadra ed alcuni piloti lo capiscono meglio di altri»
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Emiliano Perucca Orfei
Abbiamo parlato con due volte campione del mondo di Formula 1 Mika Hakkinen, scoprendo quali scelte motivano un pilota a correre o a lasciare e molto altro ancora
19 novembre 2013

Nardò - Due volte campione del mondo di Formula 1 ed oggi testimonial della Mercedes nel mondo, Mika Hakkinen è indubbiamente un pilota speciale non solo per le capacità di guida ma anche per la correttezza e la franchezza con cui ha affrontato le corse ed affronta la sua nuova vita pubblica dopo il ritiro dalle corse avvenuto al termine dell'avventura in DTM nel 2007. L'abbiamo incontrato in Puglia, ai bordi della pista di alta velocità dove la Stella sta completando i collaudi della nuova Classe C che arriverà il prossimo anno a 31 anni di distanza dal glorioso debutto della prima 190.

Mika, parliamo di F1 e di un team che conosci bene, la McLaren. Come mai i piloti latini faticano ad adattarsi a quel team? Le ultime esperienze di Perez, Alonso e Montoya sono state tutt'altro che positive. Solo un caso?
«Non avevo mai considerato questa cosa - ride - ma se ben guardiamo non è sempre andata così. Senna ha fatto un ottimo lavoro in McLaren, ha fatto la storia del marchio ed anche Emerson Fittipaldi non se l’è cavata male. In effetti, però, parliamo di altre epoche. Bisogna dire che il nostro sport non è una gara sui 100 metri, serve molta pazienza. Non conta solo quanto un pilota sia veloce: ci possono volere anni prima di vincere un titolo o anche solo una gara, quindi serve avere l’approccio giusto per tirare fuori il massimo dalle proprie potenzialità, tanto in macchina che fuori. In un team, quando si perde si perde tutti, non è solo il pilota - dai meccanici al progettista tutti ne escono sconfitti. Bisogna avere lo spirito giusto, come piloti, e stare sempre attenti a cosa esce dalla bocca…»

Oggi più che mai la F1 è una questione di team, insomma
«Sì, un pilota deve capire come supportare sempre il lavoro del team, che alla fine è composto dalle persone che ti possono dare un mezzo vincente. Tornando alla domanda precedente potrei dire che il problema forse sta lì: nei Paesi latini ci sono ottimi piloti, ma più ci si sposta a nord, più la gente in generale e quindi i piloti sono riservati, meno estroversi. Noi nordici pensiamo un po’ di più prima di parlare, mentre i latini sono più sanguigni. Non c’è nulla di male, si tratta solo di diverse personalità. In certi team questa cosa viene accettata meglio, in altri peggio.»

Il nostro sport non è una gara sui 100 metri, serve molta pazienza. Non conta solo quanto un pilota sia veloce: ci possono volere anni prima di vincere un titolo o anche solo una gara, quindi serve avere l’approccio giusto per tirare fuori il massimo dalle proprie potenzialità


Nel 2001, dopo la gara di Montecarlo, hai dichiarato che non ti sentivi veloce quanto la macchina che guidavi, avevi perso determinazione e hai deciso di ritirarti. Qual è stato il fattore che ti ha fatto prendere questa decisione?
«Stiamo parlando del mio ultimo anno in Formula 1… credo che il problema fosse nel mantenere la concentrazione al 100% per tutta la stagione. Provate a pensare ad uno scrittore: è difficile scrivere un buon romanzo se ogni cinque minuti l’attenzione se ne va, e quando si ritorna sul libro si deve riprendere cercando di capire dove si era rimasti. Nelle gare è la stessa cosa: bisogna essere regolare, consistenti, motivati, sempre al 100%, o si vede che c’è qualcosa che non va. Nel mio ultimo anno ho sentito che stavo perdendo quel ritmo, quella continuità - è una situazione che non va bene né per il pilota né per il team. E’ stata la decisione giusta.»

Una situazione che sembra avere qualche parallelo con Valentino Rossi. Pensi che possa avere i tuoi stessi problemi? Quand’è il momento in cui un professionista deve smettere, o fare altro?
«Non conosco bene la situazione di Valentino, mi piace molto guardarlo correre in TV, ma forse alcuni aspetti del mio ultimo anno in McLaren e l'ultima stagione possono essere assimilabili. Questo non significa che non possa tornare al top, alla fine è tutta questione di testa e solo chi vive questa situazione sa quale sia la decisione giusta e quale sia il suo potenziale.»

Quanto contano le brutte esperienze in queste scelte?
«Credo di avere avuto una carriera abbastanza diversa dai miei colleghi nei GP, soprattutto perchè mi ci sono voluti sette anni per vincere la mia prima gara. E' stato forse il momento molto difficile della mia carriera, perché all’epoca ero al centro di molte critiche ed in quella situazione è difficile trovare la motivazione per fare bene. Poi ho avuto qualche brutta esperienza oltre all'incidente in Australia. Quando vi resta il gas bloccato al massimo o si stacca lo sterzo a Monza, ad oltre 300 all’ora, sono cose che non è semplice dimenticare. Si inizia a pensare, a riflettere, e quando si mette tutto insieme si fatica a sfuggire alla realtà. Se poi uno ha già vinto un paio di titoli dire basta diventa più facile.»

E cosa ne pensi della F1 che sta per nascere?
«Credo sia fantastico, una gran cosa. Aggiunge tensione ed incertezza alla F1 - le gare non si decideranno fino all’ultimo giro. I team diventeranno ancora più importanti: mi piace pensare che i piloti, i tecnici, tutti quanti dovranno lavorare insieme ancora più duramente!»

Qual è stata la F1 che hai amato di più?
«Ovviamente quella del mio primo titolo iridato, la MP4/14. La amo, è stata una macchina eccezionale e credo che lo sia ancora oggi.»

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